Il sopraggiungere delle festività natalizie porta sempre con sé la speranza di tutte le speranze (o l’illusione di tutte le illusioni, a seconda dei punti di vista): quella che la pace, almeno per un certo lasso di tempo, si affermi in maniera netta e trasversale. Non soltanto nella forma di una provvidenziale tregua bellica in giro per questo mondo avidamente affamato di morte – un po’ come avvenne, proprio nella notte di Natale, sul fronte occidentale della Prima guerra mondiale, nel 1914 – ma anche di una tregua dell’anima da ciò che normalmente la turba. Dal consumante senso di frenesia, di preoccupazione. Dalla lontananza rispetto alle persone care. Ma davvero questa attesa – talvolta persino spasmodica -, accompagnata da riti ormai aridamente cristallizzati, imbevuta di un buonismo che fatica a celare la sua ipocrisia, ha il sapore di un istante risolutivo? Se la pace di cui tanto ci riempiamo la bocca, che campeggia nelle omelie e nelle grandi – si fa per dire – orazioni istituzionali non fosse altro che un assillo, un’imposizione che ci siamo dati, cambieremmo il nostro sguardo sul Natale? Perché, per quanti sforzi di autoconvincimento sia possibile fare, ci sarà sempre un frammento di realtà che tornerà a gettare nella polvere del nostro tempo i quadretti festivi che tentiamo di collocare in una dimensione avulsa e platonica del vivere. In cui lo scintillio delle luminarie si colorerà di un cono d’ombra. È da queste riflessioni che ha preso le mosse Vincenzo Consolo in uno dei suoi racconti a sfondo natalizio dal titolo Natale al paese, compreso nella raccolta Il teatro del sole. Una storia di emigranti impazienti di rientrare a casa, di insidie morali celate dietro una candida apparenza. Una storia di personaggi che cercano affannosamente rifugio nel passato ma che, loro malgrado, sono già proiettati in quel futuro da cui avevano tentato di fuggire.

È la vicenda di una famiglia senza nome, emblema universale, nel suo anonimato, di intere generazioni e della loro alternanza senza posa. La storia di un piccolo centro di montagna, anch’esso senza alcuna denominazione. Uno di quei suggestivi scenari da presepe vivente, quasi immutabile nella sua prassi secolare. Lo scenario – almeno sembrerebbe – perfetto per una favola natalizia dal lieto fine. Ma già dalle prime battute a prendere il sopravvento è una sensazione diversa. Qualcosa, nello svolgersi di questa trama tintinnante, stona irrimediabilmente. Le parole del capofamiglia, in procinto di partire alla volta del borgo natio, ne sono la piena conferma: «Ai primi paratori che in su le strade stendono archi di luminarie, montano cieli, gallerie d’abbagli; ai primi festoni d’agrifoglio e palle, ai primi abeti stralucenti dentro e fuori, upim, rinascenti, ai cordami d’oro e argento, alle scie e ai lampi, mi prende una malinconia, un’ansia che m’impedisce ogni decisione, ogni programma. È Natale! È tempo di tornare. Giù al paese». Non c’è gioia in questo ritorno. C’è solo l’ansia di una festività che si vorrebbe sempre uguale a sé stessa, plastificata come le statuine dell’albero, e che invece muta, incontrollabile, inarrestabile. Quel rientro, che doveva configurarsi come un riposo confortante, è avvizzito da un clima familiare tutt’altro che ideale (il padre si lamenta a più riprese dell’inettitudine dei figli), dalla prospettiva di una rimpatriata di facciata. Più, anzi, la volontà di rivivere le nostalgie passate si fa forte, più l’impossibilità del suo riaccadere si manifesta. Fino al punto di rottura definitivo. Approdati in quel paese mai così spoglio e desolato di giorno, mai così caciarone e impersonale la sera, i componenti della famiglia si soffermano a ricordare il Natale precedente. Tutto appare chiaro. La loro amarezza è frutto di un episodio ben preciso. Una rapina conclusasi nel sangue, mentre per le viuzze del centro rimbombava beffardamente Tu scendi dalle stelle. Come a dire che il male non può essere ignorato. Neanche a Natale. Neanche quando costringiamo noi stessi ad indossare la maschera dei festeggiamenti.

È così che la tanto abusata magia del Natale finisce per diventare ossessione, finzione. Un concetto astratto, una spensieratezza innaturale che viviamo quasi per senso di dovere, per allinearci alla superficialità altrui. Costrizione al divertimento, al senso di pace. E tale continuerà ad essere. Finché non impareremo a traslare il senso del Natale nell’epoca che viviamo. Tenendo un occhio fuori dalla bolla di canzoni e regali. Dove il Natale, se mai è arrivato, è già sparito.

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