Tornare a casa dopo anni di lontananza, più ancora che una insopprimibile necessità dell’anima, rappresenta un atto di coraggio notevole. Regredire a una vita che non ci appartiene più, ripercorrere i passi che ci hanno separato da essa, equivale a sfidare il corso del tempo, ad accorciare solennemente ogni spazio del ricordo. Fino al rischio di vederlo del tutto deturpato, contaminato, oscurato. Perché il ritorno, che pure si lascia accompagnare da tutti i migliori auspici del caso e che pure si manifesta in una sorta di entusiasmo iniziale, non è affatto garanzia di felicità. Lo scriveva, oramai trent’anni fa, Vincenzo Consolo nel suo L’olivo e l’olivastro (1994), soffermandosi sul tema dell’esilio e della ricerca delle proprie radici, nonché sul rapporto tra natura e intervento antropico. Ad esemplificazione della sua tesi, come spesso gli è accaduto nei suoi scritti, Consolo chiama in causa la vicenda letteraria dell’eroe greco Ulisse, costretto a girovagare per dieci anni nel Mediterraneo dopo la fine della guerra di Troia prima di poter riabbracciare l’amata Itaca. Ed è proprio quell’istante, quando il piede dell’uomo dal multiforme ingegno si insabbia nuovamente sulle sponde della sua isola rocciosa, a segnare un punto di rottura per certi versi drammatico. Non i naufragi e le minacce del mare ondoso; non l’avversa sorte capitata ai compagni di viaggio, né l’ostilità delle divinità olimpiche o delle suadenti Circe e Calipso, la ninfa «dai riccioli belli». Ma l’impressione di instabile mutevolezza che l’isola restituisce al suo sguardo d’insieme. Governata dai Proci in sua assenza, Itaca è infatti diversa, a tratti irriconoscibile. Quel paesaggio così familiare è ora lo specchio di un’estraneità fino ad allora sconosciuta. E due piante diventano il simbolo di questo slittamento: l’olivo e l’olivastro, appunto. La nascita è la stessa, ma il loro significato ha segno opposto: «Spuntano da uno stesso tronco – scrive Consolo – questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio d’una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé, dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio civile».

Fuor di metafore, insomma, l’olivastro ha finito progressivamente per soppiantare l’olivo. L’ordine, l’autenticità, l’armonia di un progresso perfettamente integrato ai dettami e alle tempistiche della natura ha lasciato il posto al caotico affastellarsi delle prerogative umane. Perfino la memoria appare sbiadita dinanzi alla frustrazione di questa illusione di ritrovare ogni cosa al suo posto. È l’illusione di Ulisse, certo, ma anche di tutti i moderni, siciliani compresi, alle prese con la continua dicotomia tra il disagio individuale di chi guarda a sé stesso come qualcuno di apparentabile ad uno straniero e il bisogno di riconoscimento in quella collettività che mai, davvero, ha smesso di essere sua. Non a caso, ci dice Consolo, Ulisse, in maniera forse controintuitiva, parte di nuovo. Si avventura per mare, lascia momentaneamente quelle coste tanto agognate alla ricerca dell’indefinito, forse per cercare la virtù e la conoscenza di dantiana memoria. O forse, semplicemente, perché l’identità e la memoria si (ri)costruiscono passo dopo passo. Un po’ come le radici dell’olivo, finite nascoste sotto l’ingombrante controparte. Non è solo un ritorno fisico quello a cui allude Consolo: ma un ritorno fatto di questioni irrisolte con sé stessi, di sensi di colpa dovuti all’abbandono da superare. Il ritorno di chi crede di non avere più un posto dove tornare, salvo poi scoprire di non essere, nel bene e nel male, mai andato via veramente. Un invito a non lasciarsi traviare dal proprio senso di smarrimento, ma ad aggrapparsi con tutte le proprie forze al riapparire confortante delle radici. «Il viaggio di Ulisse è il luogo dove il reale, il concreto, si sfalda, vanifica, e insorge l’irreale, s’installa il sogno, l’allucinazione: il genitore dei mostri, immagini delle nostre paure, dei nostri rimorsi».

Su quello stesso mare, che oggi abbiamo iniziato a chiamare modernità, si stagliano tutte le nostre vite. Come navi che si affannano a ritrovare la rotta. Che si illudono di aver riscoperto un passaggio sicuro, al riparo dalle insidie dell’acqua. E che, invece, con le onde del tempo hanno appena iniziato a fare i conti. No, il ritorno non è garanzia di felicità. Ma può diventarlo, se i sogni che lo hanno cullato non si infrangono con troppa facilità sui cocci di un passato che va necessariamente ricostruito.

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