I miti, spesso, alla stregua dei personaggi che li animano, sono come le correnti marine. Congiungono luoghi della terra enormemente distanti da loro, li cingono e li accarezzano con il loro ineffabile movimento. Poi scompaiono, si inabissano, fino al punto in cui la leggenda si confonde con le onde della storia. Lasciano solo una scia, che ogni tanto, pur con volto differente, riaffiora familiare. L’eco del loro spumeggiare può dar vita ad intere città, talvolta persino ad intere genealogie o ad interi siti geografici. Non è raro, infatti, che la letteratura riesca a precedere la realtà. A dare nome, consistenza e significato all’inesplorato. E il mito, d’altro canto, che tra le forme letterarie è certamente una delle più pure ed ancestrali, ha nella sua etimologia un chiaro rimando al concetto di creazione. È una favola che fa dell’astratto un principio concreto. Che affronta i misteri non per risolverli, ma per dare risposta al loro essere eterni. Tra tutte le immagini che la mitologia ha tramandato fino al nostro tempo, ce n’è una particolarmente prediletta da diverse culture per via della sua inesauribile ricchezza simbolica: quella dell’isola. Già questo, probabilmente, basterebbe a spiegare il magnetismo di una terra come la Sicilia nei confronti dei forestieri che, in diversi momenti storici, sono venuti a contatto con essa. Tanto più, poi, se si prende in considerazione come, facendo una considerazione di carattere prettamente fisico, che la Trinacria è anche, a sua volta, un insieme di isole. Una poetica e armonicamente frastagliata dislocazione di nuclei indipendenti, unite e divise da porzioni di mare, attraversate e solcate da millenni di etnie, di lingue, di manufatti. Sulle più famose di queste, le Eolie, persino l’aedo per antonomasia, Omero, costruì uno dei suoi racconti più celebri. Che a sua volta alimentò il canto di un altro grande poeta: quel Vincenzo Consolo terribilmente affascinato dall’intrecciarsi di vita e narrativa, di ingegno e fantasia.

In Isole dolci del dio (2002), infatti, lo scrittore di Sant’Agata di Militello si diletta a ricostruire non soltanto i passaggi che hanno condotto le sette isole siciliane ad entrare in pianta stabile nell’immaginario intellettuale di ogni epoca, ma addirittura la loro originaria “invenzione” poetica. Di quella galassia di corpi terrestri dall’aria raffinata e sbarazzina, del resto, si era sempre parlato. Fin da quando le imbarcazioni fenicie, nel loro vorticoso girovagare commerciale, le avevano elevate a cangianti miracoli della natura, capaci di comparire e scomparire a piacimento, di dar vita ad un vero e proprio linguaggio della luce e dell’ombra, del colore e dell’oscurità. Il loro essere aperte verso l’infinità dell’orizzonte, porta d’ingresso e d’uscita di civiltà venute da chissà e guidate dal vento nella fatale speranza di rinascere, di trovare una nuova casa o semplicemente un riparo, le aveva immediatamente associate alla dimora di un dio. «I naviganti preomerici, formidabili esploratori e mercanti, trasferirono quelle isole nella leggenda, nel mito, e le immaginarono vaganti come le Simplegadi (le isole all’imbocco del Ponto Eusino che leggenda vuole siano state attraversate dagli Argonauti durante la spedizione alla ricerca del Vello d’oro, ndr), le chiamarono le Planctai, le chiamarono Eolie, sede dei venti e dominio del re che i venti comanda». Di lì a poco, le Eolie divennero qualcosa di più: la culla degli eroi e dei poeti. «Questo mito raccolse Omeroquel flusso di memoria collettiva, quella pluralità di aedi ciechi, che si tramandavano e cantavano le vicende dei loro dei e dei loro eroi, che convenzionalmente chiamiamo Omero – e in questa luce ce le narra per bocca di Ulisse: “Quindi all’isola Eolia noi giungemmo dove il figlio d’Ippota, Eolo abitava, caro agli dei immortali: è galleggiante l’isola, un alto muro d’infrangibile bronzo e una roccia liscia la circonda». E sembra quasi riflettersi, lo sguardo dell’astuto figlio di Itaca, in quegli strati di pietra scoscesi che componevano, effettivamente, la cittadella di Lipari. Quelle stesse pietre, a picco sul mare, che custodivano tesori riemersi dalle sabbie del tempo. E che guidavano gli avventurieri del mare lungo la via dell’ossidiana. «Un grande archivio – scrive ancora Consolo – fatto di cocci di ceramica, di selci., di gironi d’inumazione e di urne cinerarie, di sarcofagi fittili, di crateri e di statue, di monili e di maschere».

Così le terre dell’impossibile, delle divinità capricciose e degli uomini straordinari, divennero patrimonio di tutti. Così la magia del racconto regalò ad un sogno il diritto di esistere. Così i miraggi di vedette fiaccate dalla ferocia del sole si tramutarono nello splendore terrestre delle Eolie. Nello specchio di un mondo che fu e che, in qualche modo, continua ad essere.

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