«Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio, la guerra». Così, con la sua solita, fanciullesca incisività, Gianni Rodari affermava la sua condanna senza appello verso gli orrori che hanno costellato la nostra storia e marchiato a fuoco la nostra memoria. Orrori così indicibili che persino i poeti, acrobati della parola per eccellenza, hanno faticato a raccontare. Perché la guerra ti priva del tuo essere più profondo, delle tue abitudini consolidate, del tuo orizzonte di legami e di sentimenti. Dietro sé lascia soltanto macerie: quelle di anime frantumate come cemento sbriciolato. Perché la guerra insegna ai suoi protagonisti – soprattutto a quelli involontari – che la salvezza, talvolta, è questione di fragili appigli. Di ricordi felici che durano lo spazio di un sospiro. Di luoghi e volti familiari che si offrono come rimedio alla solitudine. Dinamiche umanissime e meritevoli di compassione: è questo ciò che trasuda dalle liriche di Salvatore Quasimodo, testimone e narratore di entrambi i conflitti mondiali. Nella disperazione di un brusco sradicamento esistenziale, tuttavia, il poeta originario di Modica seppe trovare, nei frangenti di massima oscurità, il proprio, personalissimo sentiero verso la luce, irradiata da due fonti che lo accompagnarono senza soluzione di continuità: da un lato, il materno abbraccio della Sicilia; dall’altro, l’incontro con Dio e con le Scritture.

Non sorprende, del resto, che un fine traduttore dal greco come Quasimodo conoscesse perfettamente il dettato dei Vangeli (in particolar modo quello di Giovanni che si impegnò a trasporre in italiano) e più in generale dei libri più iconici che compongono la Bibbia. Finì spesso per far coincidere il piano della nostalgia per la propria terra natale con la ricerca spasmodica di un segno che conferisse significato a tutto il dolore che era stato, suo malgrado, costretto a sopportare. Come non chiamare in causa, ad esempio, il celebre componimento Alle fronde dei salici, lungo il quale il poeta miscela sapientemente lo struggimento dell’esiliato che rimpiange il senso di sicurezza della propria casa e il richiamo al Salmo 137 e alla desolazione di una battaglia capace solo di imporre la propria scia di morte? «E come potevamo noi cantare, / con il piede straniero sopra il cuore, / fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo? / Alle fronde dei salici, per voto, / anche le nostre cetre erano appese, / oscillavano lievi al triste vento». O ancora, l’avvilente capovolgimento del Cantico dei Cantici operato in 19 gennaio 1944, dove l’atmosfera di conciliazione che fa da sfondo al passo biblico lascia spazio all’assordante silenzio del conflitto squarciato da impercettibili rumori, simboli di una vita che tenta faticosamente di rimettersi in piedi? «Ti leggo dolci versi d’un antico, / e le parole nate fra le vigne, / le tende, in riva ai fiumi delle terre / dell’est, come ora ricadono lugubri / e desolate in questa profondissima / notte di guerra, in cui nessuno corre / il cielo degli angeli di morte. / Forse qualcuno vive. Ma noi, qui, / chiusi in ascolto dell’antica voce, / cerchiamo un segno che superi la vita, / l’oscuro sortilegio della terra, / dove anche fra le tombe di macerie / l’erba maligna solleva il suo fiore». Un pellegrino in cerca di miracoli, un naufrago in cerca dell’approdo originariamente abbandonato. È il cuore di un poeta che umilmente chiede alla propria voce di non soccombere alle sabbie del tempo. Di riportarlo all’attenzione di quel Dio sparito sui campi di battaglia. A quella Sicilia immagine di un’infanzia amaramente rimpianta in Strada di Agrigentum: «Là dura un vento che ricordo acceso / nelle criniere dei cavalli obliqui / in corsa lungo le pianure, vento / che macchia e rode l’arenaria e il cuore / dei telamoni lugubri, riversi / sopra l’erba. Anima antica, grigia / di rancori, torni a quel vento, annusi / il delicato muschio che riveste / i giganti sospinti giù dal cielo».

Della sua poetica, Quasimodo soleva dire che l’uomo ne era il centro. Ma cosa sarebbe, ogni uomo, senza la speranza in un bene superiore a cui affidare le proprie inquietudini? Senza l’istinto irrefrenabile che lo attrae verso le felicità passate? E cosa sarebbe un poeta se, persino di fronte alle tragedie più immani, non si sforzasse di dare a quegli eventi la forma di un canto? Così Quasimodo ne uscì indenne: stringendo la Bibbia e l’attesa del suo compimento tra le mani. E la Sicilia nel cuore.

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