Si dice che il canto del canarino diventi tanto più armonioso quanto più disperata è la sua malinconia. Nel chiuso della sua gabbia, escluso da quel mondo che dovrebbe appartenergli, eleva così un inno ancestrale e sacro, un coro incomprensibile eppure magnetico. È quasi un beffardo gioco del destino, questo lacerante legame tra bellezza e sofferenza, tra culmine del sentimento e sprofondo esistenziale. Un ineluttabile e perverso incantesimo, che contraddistingue anche la voce umana. Come il canarino, infatti, il poeta sa tramutare la propria marginalità in un’esplosione di colori, i languidi tremori dell’anima, la disperazione della finitudine in sensuali e umanissimi sussurri. Non è un caso che, nella storia della letteratura, ogni forma di esilio abbia finito per rappresentare la scaturigine di alcune delle prove poetiche più magnifiche e accorate che si ricordino, da Dante a Neruda, passando per Foscolo. Anche in Sicilia allo stilema della separazione sono stati dedicati versi memorabili, accomunati, pur a distanza di diversi secoli, da una medesima dolcezza.

 «Nella poesia di Quasimodo, il tema dell’esilio si lega amaro e dolente, ma splendido nella memoria dei luoghi perduti, a quello del poeta arabo Ibn Hamdis, siciliano di Noto»

Se ne era già accorto Leonardo Sciascia. Alle pagine contenute in La corda pazza si deve un’intuizione illuminata, un paragone inusuale ma azzeccatissimo: «Nella poesia di Quasimodo, il tema dell’esilio (l’esilio che generazioni di siciliani, per sfuggire alla povertà dell’isola, hanno sofferto e soffrono) si lega amaro e dolente, ma splendido nella memoria dei luoghi perduti, a quello del poeta arabo Ibn Hamdis, siciliano di Noto». Due figure diametralmente lontane, non c’è dubbio, eppure apparentati da un amore sconfinato per la propria terra: il primo, che ha vissuto in prima persona lo scempio dei conflitti mondiali novecenteschi, afflitto non soltanto da un senso di straniamento geografico ma anche umano, prigioniero della sordità bellica e del crollo di ogni speranza, attaccato con leggiadra tristezza al ricordo di ciò che è rimasto intatto nel passato. Il secondo, invece, arabo-siculo spogliato delle proprie radici, costretto a fuggire a causa dell’avanzata normanna, bandito senza peccato da un Eden continuamente inseguito al pari di un salvifico miraggio: «Se sono stato cacciato da un Paradiso – conclude in una delle sue liriche – come posso darne notizia? Se non fosse per l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso». Entrambi bramano la casa perduta, la sensazione di uno scopo e di una rassicurazione, il trastullo che solo l’immersione in un tempo felice può donare come antidoto alle ferite della miseria. Per entrambi il cuore trova lenimento nel sognare le sponde natie, i profumi di una Sicilia che, a dispetto del tempo, promette di attenderli in eterno, con il medesimo volto.

Questo peculiare binomio ci ricorda la straordinaria potenza con la quale i discepoli di Calliope riescono a dare forma alle pulsioni più intime e magmatiche del nostro essere

«E questa può essere un chiave per capire la Sicilia: che alla distanza di più che otto secoli un poeta di lingua araba e un poeta di lingua italiana hanno cantato la loro pena d’esilio con gli stessi accenti: “vuote le mani”– dice Ibn Hamdis – “ma pieni gli occhi del ricordo di lei». Così Sciascia chiosava a proposito di questo peculiare binomio. Che ci ricorda la straordinaria potenza con la quale i discepoli di Calliope riescono a dare forma alle pulsioni più intime e magmatiche del nostro essere: il terrore di un’infanzia che fugge silenziosa e colpevole, il celarsi della felicità tra le pieghe dell’illusione, l’invocazione di una Giustizia che ci sottragga al nostro isolamento, alla nostra gabbia, alla nostra solitudine. Che ci faccia sentire parte di quegli attimi di estasi che abbiamo attraversato senza afferrare.

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