Dai fumosi bar americani ai club della Repubblica di Weimar, il jazz è stato popolare in tutto il mondo, con il suo apogeo intorno alla metà del secolo scorso. Spentesi le sue voci storiche, sembrava aver perso appeal tra i giovani. Sia tra le nuove generazioni afroamericane orientate verso l’hip hop, sia tra quelle occidentali sedotte dalle sonorità africane. Eppure, a conferma dell’immortalità di questa musica, il jazz sembra oggi risorgere. Complici la crisi del rock, la omologazione del pop in un algoritmo e la perdita da parte del rap della carica iniziale di rabbia, si riscopre la voglia di fare musica con strumenti tradizionali, d’improvvisare, di uscire dalle logiche di mercato. Spetta ad alcuni giovani musicisti europei raccogliere una eredità che rischiava di smarrirsi dopo la scomparsa di tutti i suoi più grandi protagonisti. Dall’Inghilterra e dalla Sicilia arriva una nuova ondata di musicisti che riprende gli insegnamenti di Charlie Parker e John Coltrane, coniugandoli con ritmi e suoni più attuali, tanto da far gridare a una nuova “jazz explosion”.

Per entrambi i territori non è una novità. La Gran Bretagna è stata in passato patria di importanti musicisti e movimenti (acid jazz). Così anche la Sicilia. Enrico Rava sospetta che il jazz sia nel Dna dei siciliani. D’altronde, la leggenda racconta che questa musica abbia un cuore siciliano. Nick La Rocca, figlio di immigrati trapanesi, è considerato tra i “nonni” del jazz: nel 1917 incise il primo storico disco.«Non so se si possa parlare di un vero e proprio boom in Sicilia», riflette Pompeo Benincasa, patron di Catania Jazz. «Ma forse sì. Perché mai come in questo periodo si è vista una tale quantità e qualità di proposte. Tanti dischi, produzioni, tanti bravi musicisti, ma soprattutto ci sono idee. Non so dire perché. C’è però una notevole creatività».

Una rinascita che, come sottolinea Benincasa, coinvolge tutta l’Isola. Se una volta le capitali siciliane del jazz erano Palermo con il Brass Group e la provincia etnea con Catania Jazz, oggi anche i più piccoli comuni sono coinvolti

Il movimento non sembra spuntato dal nulla. Si ha la sensazione che i musicisti jazz di oggi siano più collaborativi: si muovono costantemente attraverso i progetti dell’altro e si esibiscono insieme in una serie di luoghi di ritrovo fai-da-te. Una rinascita che, come sottolinea Benincasa, coinvolge tutta l’Isola. Se una volta le capitali siciliane del jazz erano Palermo con il Brass Group e la provincia etnea con Catania Jazz, oggi anche i più piccoli comuni sono coinvolti.

Raffaele Genovese

Una rivoluzione urlata dal sax di Francesco Cafiso, il ragazzino che a 13 anni con il suo contralto stregò Wynston Marsalis e oggi è l’ambasciatore italiano del jazz. Sull’onda del successo del sassofonista di Vittoria, escono artisti capaci di conquistare con poche note gli spettatori. Enrico Rava è il primo fan dei gemelli Matteo e Giovanni Cutello di Chiaramonte Gulfi, del pianista e trombettista Dino Rubino di Biancavilla e del catanese Giuseppe Asero, altro formidabile sassofonista. Sorprendentemente, Enna si è rivelata una fucina di talenti di questa musica: dal pianista Angelo Di Leonforte al batterista Emanuele Primavera e al contrabbassista Giuseppe Cucchiara. E ancora Carmelo Venuto e Marco Panascia, contrabbassisti catanesi, il trombettista Giovanni Falzone, il chitarrista Francesco Buzzurro, tra i migliori al mondo secondo Ennio Morricone, i pianisti siracusani Raffaele Genovese e Seby Burgio.

«Al di là della simpatica leggenda di Nick La Rocca, storicamente c’è stato un forte legame tra la Sicilia il jazz», commenta Raffaele Genovese, ricordando, tra gli altri, gli “oriundi” Chick Corea e Joe Lovano, e “indigeni” come Bonafede, Panascia e i fratelli Amato. «Non so spiegare per quale ragione. Non credo dipenda da un fattore genetico, ma da un contesto sociale. I siciliani come i neri d’Europa? Forse, può darsi che abbia avuto un senso di rivalsa, ma sono più propenso a credere che siano state condizioni socio-economiche a determinare lo sviluppo di questa musica nell’Isola. Indubbiamente, il musicista siciliano suona diversamente da uno di Milano o di Roma o di Torino, hanno caratteristiche diverse». Come ha scritto il giornalista e scrittore Flavio Caprera, sottolineando la sicilianità del pianista siracusano, «Genovese riesce, in perfetto equilibrio, a bilanciare le pulsioni melodiche, solari e fisiche del suo essere isolano, con un jazz di natura occidentale e afroamericana».

E la Sicilia, anche per Genovese, fa da traino, insieme con Londra, alla rinascita del jazz. «C’è la tendenza alla riscoperta della melodia, della tradizione. Molto probabilmente è il momento storico che stiamo attraversando a portare a queste scelte». Una musica meno spigolosa, più attenta alle esigenze del pubblico, come quella che Raffaele Genovese propone nel suo progetto per piano solo. «Spesso il musicista si concentra su quello che lui vuole dalla musica», spiega. «Il fatto di non avere avuto pubblico per due mesi mi ha fatto capire la sua importanza. Dobbiamo tendergli una mano. Che non significa fare musica commerciale, ma suonare musica per il mio divertimento e per quello del pubblico».

Raffaele Genovese: «I mesi di clausura trascorsi da solo al piano a studiare e suonare e l’esigenza di confrontarmi con gli standard mi hanno convinto a rimettermi in gioco da solo. Nel mio piano solo brani dal Songbook americano: evergreen, brani immortali e popolari di Cole Porter, Jerome Kern, George Gershwin, Irving Berlin»

Il lockdown ha quindi convinto Genovese ad anticipare il progetto per piano solo («il programma prevedeva prima il trio, poi un quintetto e, alla fine, l’album solo») con la rielaborazione di standard scelti dall’immenso Songbook americano: evergreen, brani immortali e popolari di Cole Porter, Jerome Kern, George Gershwin, Irving Berlin. «Ma anche Married with children degli Oasis dall’album Definitely Maybe», tiene a sottolineare il pianista dagli studi classici, ma con il cuore rock-blues e un’adolescenza in cover band. «Anche gli standard danno occasione di mettere il tuo stile. Brad Mehldau, ad esempio, ha stravolto il modo di suonare gli standard». Il pubblico sarà anche importante nell’orientare le scelte musicali del pianista aretuseo: «È un progetto in evoluzione. È stato sempre il mio desiderio più grande quello di un album per solo piano, ma pensavo di realizzarlo al termine di un percorso che, però, è stato sconvolto dalla pandemia. I mesi di clausura trascorsi da solo al piano a studiare e suonare e l’esigenza di confrontarmi con gli standard mi hanno convinto a rimettermi in gioco da solo».

Roberta Maci

Adesso arriva il test con il pubblico. Raffaele Genovese sarà tra i protagonisti della Jazz Marathon che Catania Jazz organizza dal 14 al 24 settembre nell’anfiteatro all’aperto delle Ciminiere. In questa occasione, il pianista siracusano si presenterà nella veste di solista. Accadrà il 15 settembre. Il giorno prima, quello di apertura della rassegna, altre due anteprime “live”: Twenty Twenty di Luca Aletta e Stefano Cardillo e Voyagedello Straight Jazz Quartet che vede insieme Giuseppe Trovato (piano), Alberto Amato (contrabasso), Marco Caruso (alto sax) e Marcello Arrabito (batteria). L’indomani, oltre a Raffaele Genovese, il fantastico Angelo Di Leonforte trio per far suonare sul palco This Too Will Pass, elegante album sfornato il 4 settembre scorso; il 16 la ragusana Roberta Maci “Trinkie Trankle” trio e il Francesco Cusa trio feat. Fabrizio Puglisi con il nuovo album The Uncle, omaggio a Gianni Lenoci, pianista protagonista della scena d’avanguardia scomparso lo scorso anno.

Si salta al 21 settembre con Jazz Narcissus e Marco Pacassoni Group. Quest’ultimo, marchigiano, è l’unico “extracomunitario” in cartellone. «Il suo progetto musicale su Frank Zappa avrebbe dovuto fare da collegamento con la rassegna cinematografica, ma, per una questione di date, siamo stati costretti a posporlo», spiega Benincasa. «Altri jazzisti italiani suoneranno comunque nel corso della maratona, ma nelle vesti di ospiti, a conferma dell’attenzione che gli artisti hanno nei confronti della vitalità di questo movimento siciliano. Peccato che non ci sia la stessa attenzione da parte delle istituzioni, come è accaduto a L’Aquila».

Emanuele Primavera: «Questo è un progetto, non una jam. Prima è stata un’amicizia condivisa, poi è nato un quartetto che adesso si è allargato. Un progetto frutto di anni di ricerca stilistica»

Serata funky il 22 con i pirotecnici etnei Cratere Centrale e Magma Funk Collective a indicare come i percorsi del giovane jazz siciliano seguano strade diverse, attingendo liberamente ad altri generi, che siano hip-hop, neo-soul, acid. Si chiude con altre due “eccellenze” del Trinacria jazz: il sassofonista Cristiano Giardini presenta il nuovo progetto con il Modern Quartet, mentre Emanuele Primavera darà una anteprima del potente secondo album Above the Below, in uscita il 20 settembre per Abeat, insieme con quintetto che, per quattro quinti, è una qualificata rappresentanza del jazz isolano, comprendendo, oltre al batterista ennese, il catanese Carmelo Venuto, contrabbasso, il messinese Alessandro Presti, tromba, e il sassofonista Nicola Caminiti, messinese ma da tempo di stanza a New York. Completa la formazione il pianista fiorentino Alessandro Lanzoni, qualche anno fa eletto “miglior nuovo talento” al Top Jazz.

Emanuele Primavera

«È una rarità vederci assieme», ride Emanuele Primavera. Che tiene a sottolineare che «questo è un progetto, non una jam. Prima è stata un’amicizia condivisa, poi è nato un quartetto che adesso si è allargato. Un progetto frutto di anni di ricerca stilistica». L’album Above the Below, introdotto dalle autorevoli note di Paolo Fresu, è un magma sonoro brillante e carico di energia, che si muove tra scatti, esplosioni, rallentamenti, alle radici del jazz, fra bebop e cool, con gli strumenti in continuo dialogo tra loro, senza mai sovrapporsi o scontrarsi. Dialogando con i suoi compagni di viaggio, Primavera riesce a trovare insoliti equilibri tra melodia e ritmo. «Forse perché penso più da batterista che da leader», si schermisce. Il gruppo, insomma, prevale sui singoli.

Above the Below si ascolta tutto d’un fiato, senza pause né cali di tensione. Fra i nove brani, segnalo Sea lament, dove lo struggente lamento del mare diventa un urlo straziante per «le vittime dell’immigrazione», spiega l’autore. «Il brano mi è stato ispirato dalla visione di Fuocoammare, il film di Gianfranco Rosi, ma è un tema che sento molto». E poi E. T. N. A. (Energy Ticks Need Aching), travolgente, dirompente, pirotecnica chiusura del disco. «Nella mia casa a Enna le finestre sono orientate verso l’Etna. Il titolo è sì un omaggio al vulcano, ma è anche un gioco di parole per dire che l’arte spesso arriva da atti dolorosi».

L’album continua la serie positiva cominciata dai lavori discografici di Dino Rubino, Francesco Guaiana, Angelo Di Leonforte. «Io appartengo alla generazione degli anni Ottanta, ed è stato difficile emergere schiacciati dai grandi nomi». Oggi che questo peso non c’è più, le nuove leve non sono costrette a farsi notare sperimentando, ma possono rileggere il mainstream con uno spirito nuovo, moderno. Come nel caso dei musicisti citati.

Una rinascita, quella del jazz, sostenuta anche dal pubblico. «Questa estate i nostri concerti hanno avuto più spettatori di quelli pop di artisti famosi come Capossela», puntualizza Benincasa. «C’è attenzione verso la musica locale, ma, molto probabilmente, è un fenomeno legato alla politica dei prezzi contenuti e, soprattutto, al legame di fiducia tra il pubblico e chi organizza. Rapporto che non è stato alterato dallo scandalo dei voucher, com’è invece accaduto nel mondo del pop. Un peccato, secondo me, del quale la musica live risentirà anche nel dopo-Covid».

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