Da Jeli al marchese di Roccaverdina: quando follia fa rima con impotenza
Tra le convinzioni più o meno radicate a proposito della storia letteraria – retaggio di un certo approccio didattico ormai inadeguato – c’è quella di poter distinguere nettamente epoche e correnti culturali sulla base di alcune specifiche caratteristiche. Il Romanticismo, ad esempio, incarna la passione e il patriottismo; il Decadentismo, d’altra parte, è per antonomasia il periodo dell’irrazionalità e della sfiducia nelle conquiste della scienza. L’esatto contrario, insomma, di Naturalismo e Verismo, che sull’osservazione oggettiva e impersonale dei fatti sociali hanno basato il loro impegno. Benché in queste linee generali che tendono frettolosamente ad essere tracciate risieda un fondo di verità, sarebbe riduttivo esprimere qualsivoglia giudizio che non tenga conto di quanto, succedendosi rapidamente e talvolta persino coesistendo, questi movimenti si siano reciprocamente contaminati. E proprio a proposito del Verismo – per ovvie ragioni estremamente vicino alla sensibilità dei siciliani – sulla scorta di queste superficiali letture si è diffuso un ulteriore luogo comune, che vorrebbe associare al concetto di oggettività quello di freddezza, per non dire di apatia. I nostri grandi esponenti veristi, Verga e Capuana su tutti, trincerandosi dietro lo svolgimento delle vicende senza lasciar trasparire la loro opinione, sarebbero capaci di svuotare le loro opere di ogni slancio emotivo. Ma basta prendere in esame alcune delle storie più iconiche della letteratura isolana per rendersi conto di quanto fuorviante possa essere questa lettura. E di quanto fine, in realtà, sia l’analisi dell’animo umano e dei suoi tragici eccessi.
Come non richiamare alla mente, in tal senso, la novella verghiana Jeli il pastore e il romanzo-capolavoro di Capuana Il marchese di Roccaverdina? Due personaggi nettamente distanti nella loro parabola esistenziale, nella loro formazione familiare, eppure insospettabilmente accomunati da un malessere tanto profondo quanto complicato da decifrare, uniti per di più da una sorte terribile. Entrambi, infatti, si ritrovano a commettere un efferato omicidio, che i due personaggi (e il lettore con loro, almeno di primo acchito) attribuiscono all’infelice conclusione dei loro amori. Jeli, infatti, toglie la vita a Don Alfonso, amico di lungo corso reo, a suo dire, di aver sedotto alle sue spalle la giovane Mara, verso la quale il pastore mostra a più riprese una sorta di malsana ossessione. Il marchese, invece, uccide Rocco Criscione, servitore al quale, in un primo momento, aveva imposto il matrimonio con Agrippina Solmo, amante di umili origini che il Roccaverdina, dall’alto della sua nobiltà, non poteva ufficialmente sposare. Come se non bastasse, la colpa ricade, anche grazie all’abile regia del protagonista, su Neli Casaccio, che dietro le sbarre perderà la vita. Nulla, però, possono tali sotterfugi contro il destino “da vinto” che lo attende: il suo progetto di un’ambiziosa Società Agricola naufraga miseramente, così come le sue seconde nozze.
Il fallimento, in effetti, è il vero filo conduttore di queste vicende sprofondate nell’abisso della follia. Il fallimento storico ed umano di un’epoca aggrappata disperatamente all’idea di ordine e progresso e tradita in questa aurea illusione dallo spiazzante dipanarsi degli eventi. Il fallimento di uomini che si battono per un posto nel mondo pur non avendo i mezzi per trionfare, schiacciati, impotenti dinanzi alla loro patetica inadeguatezza. Così Jeli, rozzo pastore che teme non sia abbastanza sfoggiare onestà e purezza per guadagnare il cuore dell’amata, rimugina sulla sua condizione disagiata, colpendo Don Alfonso non solo perché rivale in amore, ma anche e soprattutto per ciò che rappresenta: il ricco prepotente che su di lui avrà sempre la meglio. Altrettanto critica è la posizione del Marchese, diviso tra la fedeltà ai consumati ideali dei diritti di sangue e l’impossibilità di costruire un’alternativa produttiva nell’immobile e depauperata Sicilia rurale del post-Unità. Due desideri di cambiamento inappagabili, il cui frutto sono i demoni della miseria e della disillusione.
Un’infelicità tanto moderna e sfaccettata da risultare assolutamente familiare ad un lettore contemporaneo. Al quale i personaggi di queste controverse vicende non chiedono una giustificazione o un perdono che nemmeno i loro creatori gli concedono. Ma solo attenta e riflessiva comprensione. Su come, a volte, la tragedia sappia essere beffardamente banale.