Che il momento solenne in cui un allievo riesce a superare il proprio maestro appartenga al corso naturale degli eventi è abbastanza assodato. Altrettanto non lo è, tuttavia, constatare come, fin troppo spesso, questa dinamica conduca ad un eclissamento, o al totale oblio, di quello stesso maestro che tanto si era speso per il successo dell’illustre discepolo. Da Brunetto Latini e i suoi meriti nella formazione di Dante all’influenza del Verrocchio sull’astro nascente di Leonardo Da Vinci, passando per gli insegnamenti che Picasso ricevette dal padre artista, sono numerosi i casi della storia letteraria e culturale che hanno visto sottovalutato l’apporto di questi illustri mentori. Nella schiera dei quali risiede, tristemente, anche un grande siciliano originario di Bagheria: quell’Onofrio Tomaselli che fu probabilmente il principale modello di ispirazione per Renato Guttuso e che, con la sua versatilità, ha aperto la strada a generazioni di pittori impegnati nel sociale e visceralmente legati alle sorti della loro terra come Alfonso Amorelli. Nella sua parabola professionale ed esistenziale, peculiarmente caratterizzata dalla ritrosia ad allontanarsi dalla Trinacria a dispetto della frequenza con cui gli artisti emigravano in cerca di stimoli intellettuali innovativi, si scorge tutta la passione civile di un uomo che ha fatto della sua arte un mezzo di denuncia e di difesa degli ultimi.

“Veduta di Sferracavallo (Palermo)”

Da sempre interessato alle cause sociali, Tomaselli coniugò sempre il suo senso di giustizia con le doti uniche della propria pennellata: a testimoniarlo la sua militanza nel Partito Comunista, che lo condusse persino alla carica di senatore. Un uomo carico di speranze e di istanze rivoluzionarie, che sapeva infiammare la comunità bagherese con comizi improvvisati ai quali non mancava di partecipare proprio Guttuso, ammaliato da quella ferrea intransigenza verso ogni forma di ingiustizia. Una stima che rimase sostanzialmente immutata nel tempo e che sfociò in tutta la sua evidenza nel 1953, quando Guttuso realizzò La Zolfara – unanimemente considerata una delle vette più alte della sua produzione – recuperando il soggetto già utilizzato dal maestro nel lontano 1905. In quell’anno, infatti, Tomaselli aveva realizzato uno dei dipinti più noti all’opinione pubblica isolana e non, ovvero I carusi. A più di un secolo, stride pensare che quel ritratto così crudo ma ugualmente e misteriosamente poetico dei ragazzi fiaccati dall’immane fatica della miniera sia raramente collegato al nome del suo creatore. Stride pensare che l’umanissima compassione di cui la scena è ammantata sia pian piano sbiadita nel corso del tempo, di sguardo in sguardo. Sbiadita come il bianco delle vesti indossate dai fanciulli, come la brulla distesa pietrosa sulla quale muovono i passi tremolanti e sconfortati, come la flebile luce che, indifferente, li bacia in uno dei rari momenti trascorsi in superficie. Lo stesso bianco, tuttavia, che rimanda ad una purezza prematuramente spezzata e che, magistralmente, si oppone al nero senza volto delle ombre proiettate sul suolo e a quelle lasciate solo momentaneamente alle spalle, nell’oscuro cunicolo sinistramente simile a delle fauci spalancate che aspettano il loro ritorno. Una vera gemma, a cui Tomaselli affiancò spesso vedute campagnole di canicolare bellezza, borgate incastonate tra mare e monti, scorci di preziosa e ingenua quotidianità.

Tomaselli morì nel 1956. Del suo straordinario lascito poco si è scritto, e ancor meno si è detto. Trattato forse con eccessivo provincialismo da quella critica spesso fin troppo distratta – la stessa che colpevolmente continua ad ignorare il valore del movimento futurista siciliano – tocca ai contemporanei riscoprire un gigante che, per il mondo della pittura e in relazione alla grandezza di Guttuso, fu un po’ ciò che Capuana rappresentò per Verga. Un parallelismo non casuale, se si considera quanto decisiva sia stata la sua riflessione nella costituzione di uno stile realista, o verista, delle arti figurative isolane. Un merito immortale, che non teme oblio. Come il cuore delle sue opere che continua a battere.

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