«Prevedibile come una partita di scacchi». Così Italo Calvino descriveva la Trinacria in una lettera a Leonardo Sciascia. Un simpatico siparietto che, però, secondo il papà di Montalbano, nasconde una profonda verità: solo un abitante di quest’isola sa cogliere il nucleo più profondo della sua terra

Esistono realtà che assomigliano vagamente alla luna: da secoli vengono scrutate con certosina attenzione, con fervente curiosità. Qualche fortunato ha persino avuto l’onore di mettervi piede, di esplorarle, di saggiarne l’aura selvaggia e verace che le contraddistingue. Eppure, come nel caso del nostro satellite, questo sforzo può rivelarsi non sufficiente: ci sarà sempre una faccia pronta a celarci il suo volto, un frammento di comprensione così sfuggente da risultare inattingibile, una scintilla di sentimento soffocata dalla polvere di chi non sa immedesimarsi. La Sicilia rappresenta pienamente una di queste lune, almeno per chi non ci è nato o cresciuto. È una patria di mistero ancestrale, aperta al mondo e al tempo stesso riparata nella tana della sua irriducibile e inconfondibile identità. Un’identità capace sì di sfiorare lo straniero fino a concedergli l’illusione dell’illuminazione, ma anche di confonderlo. Persino se si tratta di uno dei più grandi letterati dell’Italia novecentesca come Italo Calvino.

Proprio di uno scambio di idee a proposito della natura siciliana, avvenuto attraverso un dialogo epistolare tra l’autore de Il barone rampante e l’amico Leonardo Sciascia, ebbe a raccontare, una volta, Andrea Camilleri. Benché il nodo della questione fosse stato originato da un confronto legato per lo più all’ambito letterario, fu subito chiaro al papà di Montalbano come, di riflesso, le impressioni di Calvino fossero estese alla Sicilia nel suo complesso, nella sua concretezza quotidiana. «Una volta – confessò Camilleri – Italo Calvino scrisse a Leonardo Sciascia che era praticamente impossibile ambientare una storia gialla dalle nostre parti, essendo la Sicilia prevedibile come una partita di scacchi. Il che dimostrava inequivocabilmente come Italo Calvino non sapesse giocare a scacchi e soprattutto non conoscesse né la Sicilia né i siciliani». Al di là della considerazione che, per la cronaca, una partita di scacchi è potenzialmente prevedibile – a patto di possedere uno strumento dotato di una eccezionale potenza di calcolo – l’ironica riflessione conclusiva di Camilleri indica un dato di fatto difficilmente contestabile: così come è impensabile che un uomo riesca a prevedere tutte le variabili possibili scaturite da ogni singola mossa di un incontro scacchistico, allo stesso modo non è possibile inquadrare la Sicilia in uno scatto unitario, omogeneo, piatto. Ancora una volta, torna la parola chiave “conoscere”: che in questo caso significa rassegnarsi, rendersi conto che talvolta non ci si immerge nella profondità delle cose credendo di possederle, ma lasciandole libere di esprimersi, di manifestare davanti a noi la loro salutare mutevolezza. Così solo un siciliano può capire la nostra terra: non per un mero privilegio geografico-spaziale, non perché nascere e vivere stabilmente in un luogo consente in automatico di dedurre tutte le risposte alle nostre domande. Ma perché nel cambiamento dell’isola si riflette il nostro.

La Sicilia vive di virtuosismi, di contrappunti, di incroci tra chiaroscuri e pennellate di colore. Il segreto della sua vicinanza al nostro animo è la fatica: quella di una storia claudicante ma sempre proiettata in avanti, che si sovrappone a quella che facciamo per capire noi stessi. Anche a noi, come ai Calvino, la Sicilia sfugge un po’: ma a differenza degli altri, in un modo o nell’altro, sappiamo inseguirla e raggiungerla, correre insieme e alla stessa velocità. Perché per quanti difetti possa avere, per quante delusioni ci ha riservato e ci sta ancora tenendo da parte, non vorremmo che il suo nucleo più primigenio cambi di una virgola. Per questo alla fine della corsa ci tende la mano: perché la amiamo incondizionatamente. E amare senza nessun altro fine vuol dire conoscere.

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