Dicono che una delle paure ancestrali dell’uomo, una di quelle che ci si porta dietro quasi inconsciamente, che di colpo riaffiorano scuotendoti dal torpore, abbia a che fare con ciò che non mostra il suo volto. Esseri mitologici, entità appartenenti a folklori più o meno esotici, persone o entità mascherate. Forse perché è nello snodarsi sinuoso dei lineamenti lungo il viso, nel guizzare ardito degli occhi, nell’accenno involontario di una smorfia che riponiamo la speranza di leggere l’essenza altrui. Se così non fosse, se l’assenza di riconoscibilità visiva non fosse causa di estremo turbamento, non si spiegherebbe la progressiva evoluzione a cui è andato incontro il modo l’essere umano si comporta sui campi di battaglia. Al netto di poche eccezioni, la modernità della guerra, il suo sfoggio mortifero degli ultimi ritrovati tecnologici, si basa sulla spersonalizzazione del carnefice. L’arma bianca ha lasciato il posto ai colpi a distanza. Missili e bombe fanno scempio indistinto di sodali, avversari ed innocenti. E anche quando la furia bellica sembra produrre una regressione, quando, come in Ucraina, si combatte villaggio per villaggio, vicolo per vicolo, la bestialità contemporanea continua ad imporsi mimeticamente. Dietro una benda, un passamontagna, una maschera antigas, un casco. Il punto, oltre ogni ragionevole motivazione di sicurezza – come se in guerra ne esistesse qualcuna – è sempre lo stesso: il timore del suo spettro si incute dove il volto non emerge. Senza volto, del resto, uomini non lo si è. È quasi un perverso alleggerimento della coscienza: se non si hanno fattezze, e se non si intravedono quelle di chi sta di fronte, il delitto della guerra non è imputabile al singolo. Non è conteggiabile. È solo il perpetuo procedere dei numeri. Perché il volto è speranza. Come ci ricorda un toccante passaggio di Uomini e no, romanzo di Elio Vittorini del 1945 ambientato a Milano durante le fasi più concitate e drammatiche della Resistenza partigiana contro il nazifascismo. Nella storia struggente e a tinte neorealiste di Enne 2, capitano dei GAP, convivono infatti la sacralità del patriottismo e l’insensatezza di una guerra fratricida, la nobiltà della missione libertaria e la ferocia dell’odio. Fino, almeno, al sorprendente epilogo.

«Questo forse era il punto. Che si potesse resistere come se si dovesse resistere sempre, e non dovesse esservi mai altro che resistere. Sempre che uomini potessero perdersi, e sempre vederne perdersi, sempre non poter salvare, non potere aiutare, non potere che lottare o volersi perdere. E perché lottare? Per resistere. Come se mai la perdizione ch’era sugli uomini potesse finire, e mai potesse venire una liberazione. Allora resistere poteva esser semplice. Resistere? Era per resistere. Era molto semplice». È in questa spirale di terrore e ossessione che Enne 2 si muove nel suo tentativo di liberare la città meneghina. Tra il coordinamento di una sanguinaria imboscata e l’altra, tra le sconvolgenti scoperte delle macabre rappresaglie tedesche contro i civili – tra cui donne, anziani e bambini – nemmeno l’amore per Berta, donna sposata che ricambia i suoi sentimenti ma che non riesce a tagliare i ponti con il proprio passato, sembra in grado di salvarlo dalla cappa di oscurità che lo avvolge dall’inizio del conflitto. Vorrebbe sovvertire quel mondo ingiusto andato in frantumi, ripristinare un senso di giustizia, affrettare la fine di quell’incubo. Decide allora di tendere un agguato ad uno dei capi fascisti più in vista, Cane Nero. Ma il suo proposito va in fumo: viene scoperto, riconosciuto, e su di lui viene istituita una taglia. Le soffiate si sprecano: Enne 2 è condannato. Ma non per questo egli rinuncia al suo destino. Tutto, insomma, sembra scivolare verso l’irreparabile. E, forse, è davvero così che il romanzo andrebbe inteso. Se non fosse per ciò che accade quando un giovane operaio avvisa il protagonista che i fascisti sono alle sue costole. Enne 2 lo recluta tra i partigiani e gli fornisce in dote una pistola, affinché venga istruito su come utilizzarla contro i tedeschi. Qualche tempo dopo, gli viene assegnato il fatale compito: uccidere un giovane ufficiale nazista. L’operaio è sul punto di farlo, ma qualcosa lo irretisce insanabilmente: l’espressione della sua vittima designata gli appare «triste». Si ferma. Rinfodera la pistola. E decide di disobbedire a quell’ordine. Di fare la cosa giusta, ma sbagliata agli occhi dei suoi compagni. In quel volto, ci dice l’autore, egli aveva rivisto il suo.

Un solo volto, spesso, può determinare il confine tra il bene e il male. Un solo volto, ancora appeso a chissà quale illusione, può fermare la barbarie. Impolverato, ma non sepolto. «Perché si chiamava civile una guerra in cui due fratelli potevano trovarsi uno contro l’altro? Non si sarebbe dovuto chiamarla, anzi, incivile?».

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