Da “ristoro” a “webinar”: se il Covid cambia perfino il linguaggio
«Mi hanno tamponato!». All’annuncio dell’amico, nell’era pre-Covid avresti risposto: «Quando, dove? Ti sei fatto male? La macchina ha subìto danni pesanti?». Oggi, invece, all’incidente non pensi per nulla e la risposta immediata è un’altra: «E come sei risultato?».
La pandemia sta cambiando non soltanto le nostre vite, le nostre consuetudini, i nostri comportamenti, la nostra quotidianità, ma anche il nostro linguaggio e il senso di molte parole. Oggi “essere negativo” ha un valore positivo. «Sono negativo! Evviva» esulti. Mentre “essere positivo” comporta guai. «Cazzo, sono positivo» piangi e ti aspetti uno strascico drammatico.
Così come “mascherina”, diventata per tutti noi un’altra parola, oltre che un oggetto di uso quotidiano, perdendo ogni legame con il Carnevale. O i “drive in”, scomparsi come cinema e chiusi come fast food, sono oggi intesi come presidi sanitari dove sottoporsi al tampone. E che dire dell’acronimo “Dad”? Che scritto così si leggerebbe papà in inglese. Invece con la seconda “D” maiuscola o separando con un trattino le tre lettere (“D-A-D”) diventa “didattica a distanza”.
A complicarci la vita arriva poi il burocratese che ha rispolverato termini arcaici come “ristoro” al posto del più contemporaneo “risarcimento” o addirittura “rime buccali” a indicare il distanziamento fra gli studenti: nulla a che vedere con la poesia, ma la “rima buccale” indica l’apertura delimitata dalle labbra a forma di fessura trasversale tra le due guance (buccae). Si traduce, per i non addetti ai lavori, con il fatto che gli alunni devono stare a un metro da bocca a bocca. Così si legge nelle linee guida del ministero dell’Istruzione del 26/06/2020: «Il distanziamento fisico (inteso come 1 metro fra le rime buccali degli alunni), rimane un punto di primaria importanza nelle azioni di prevenzione». Così come appare superata la definizione di “quarantena” che indica un periodo di quaranta giorni di clausura, ridotto in diversi Paesi prima a quattordici giorni adesso a una settimana.
Poi c’è l’infelice traduzione dall’inglese di alcuni termini, come “social distancing”, diventato in italiano “distanziamento sociale”, neologismo accolto dalla Treccani, ma bocciato da molti che leggono in “sociale” un valore discriminante. Più corretto sarebbe “distanziamento fisico”. «È pericoloso parlare di distanziamento sociale perché poi porta all’isolamento sociale e fa perdere l’umanità», commentò il musicista Ezio Bosso nella sua ultima intervista.
E, ancora, tutte le parole prese in prestito dall’inglese. Come “droplet”, l’emissione di secrezioni respiratorie e salivari in forma di goccioline, espulse quando si starnutisce e si tossisce, oppure “cluster”, ovvero focolaio. E ancora “smart working”, il telelavoro, e “termoscanner”, lo strumento per la misurazione a distanza della febbre tramite rilevamento delle emissioni infrarosse del corpo.
Se Spotify prima e Netflix dopo ci hanno reso familiare lo “streaming”, musicale e televisivo, il Covid ci ha fatto avvicinare al “webinar”, da “web” e “seminar”, un’occasione in cui più persone si ritrovano via internet per approfondire o discutere un certo argomento. Fino a “lockdown”, la chiusura di alcune zone di una città o di una regione. In quest’ultimo caso, meglio l’adozione del termine straniero “lockdown”, piuttosto che quello italiano, che sarebbe “confinamento” e ricorderebbe la punizione per i dissidenti sotto il fascismo e per mafiosi dopo.