«Perché gli africani decidono di lasciare la propria terra? Se anche a te togliessero il letto, poi il tavolo, e infine la dispensa sono sicuro che faresti la mia stessa scelta. Chi muore di fame alla fine si ribella. Chiedere a chi ha vissuto tutto questo di non spostarsi è come dirgli di morire». Dakarai (nome di fantasia) ha 21 anni. Il 20 marzo del 2016 è arrivato in Sicilia con uno di quei barconi che colorano di rosso il nostro mare mentre lasciano nera la coscienza. Il sogno di un futuro diverso lo ha portato dal Senegal fino a Catania, dove adesso studia lingue. Lo incontriamo da Isola, in occasione del workshop “Rebuild your career” dedicato a persone richiedenti asilo o beneficiari di protezione internazionale, una iniziativa sostenuta tra gli altri da UNHCR, UNICEF, Save The Children e Trame di Quartiere Cooperativa di Comunità svoltasi ieri nella Giornata del Rifugiato. Tra allegria, gratitudine e malinconia, Dakarai ci ha raccontato la sua storia, una storia plurale che nel suo caso ha un lieto fine.

IL VIAGGIO. «Sono nato in Gambia – comincia Dakarai – ma sono cresciuto in Senegal ed è da qui che il 1° gennaio 2016 sono partito. Ho viaggiato in autobus fino al Mali, poi dal Mali al Burkina Faso e da qui fino al Niger. Dal Niger dei pick-up ci hanno condotto fino in Libia». Sono le 14.30, su Catania batte il sole ma a quell’ultima parola l’aria è gelida. «Libia, sei stato in Libia?». Omar, un altro dei ragazzi che hanno partecipato al workshop che fino a quel momento era rimasto seduto al tavolo con noi in silenzio, alza d’impeto lo sguardo. «Perché, anche tu?», gli chiede subito Dakarai. «Sì», ribatte l’altro, riabbassando gli occhi e lasciando che quelle due piccole lettere ci scivolino addosso come macigni. Poi Dakarai prosegue: «Se avessi saputo quello che mi attendeva non sarei partito». Chiedo se ne è certo: è un ragazzo solare, determinato e gentile con tutti, sembra felice e speranzoso. Ma non è abbastanza per calmare il ricordo. «Nonostante tutto, se dovessi ripetere lo stesso tragitto, non lo rifarei». Le nostre dita tornano a spostarsi sulla mappa fino a Sabrada, la città sulle coste libiche da cui è partito per approdare prima a Pozzallo e poi a Catania. In mezzo lampeggia la scritta “Mar Mediterraneo”: il nostro sguardo si incrocia proprio su quelle acque e lì prova a restare a galla.

IL BUSINESS MIGRANTI. Un viaggio senza possibilità di ripensamenti. «Se arrivi in Libia non puoi più tornare indietro. Non ci sono mezzi e anche volendo provarci è impossibile. Tutti sono armati, anche i bambini. Nel deserto ci sono persone brutte che ti rapiscono per chiedere riscatto ai genitori altrimenti ti uccidono». Ci spiega che si paga ogni spostamento e l’ultimo, la traversata in mare, puoi anche rischiare di pagarlo più volte. «Se la barca è al completo parti subito. Se invece ancora non è piena o non tutti hanno pagato, puoi restare lì bloccato per molto tempo. In Libia non ci sono leggi né regole: gli sbarchi li gestiscono capi di gang. Metti caso tu ti affidi a un libico a cui hai pagato la traversata ma poi ti rapisce un altro libico capo di un’altra gang: devi pagare anche lui e se non hai i soldi o te li fai arrivare o lavori. Non hai via di uscita. I migranti sono merce, c’è un business: più migranti le varie gang hanno sotto il loro controllo più soldi si fanno. Ecco perché poi ogni gang cerca di rapire migranti dalle altre gang».  

IL SOGNO EUROPA. La domanda sorge spontanea: cosa sanno in Africa della nostra Europa, cosa immaginano di questa parte di mondo? Ma soprattutto, è possibile che nessuno racconti lì le tragedie che vediamo noi qui, da questo affaccio sul Mediterraneo che è Catania, che è la Sicilia? «Io non ne avevo idea. Si parlava di lavoro, di opportunità, di un futuro migliore. Non sapevo neanche dove stessi andando di preciso: non volevano spargere troppo la voce. Adesso so cosa significa sbarcare. I miei cugini mi scrivono che vorrebbero venire qui: ho provato a raccontare cosa significa, che rischi in ogni momento di morire. Ma rispondono che come ho fatto io possono fare anche loro. Il punto è che in Africa loro come tanti fanno una vita misera e vedendo me pensano sia tutto bello. Ma non è così, sono solo fortunato».

SCOPRIRE IL FUTURO. «Ho sempre incontrato gente positiva. Gli operatori della Comunità che mi ha accolto mi hanno preso come un figlio. E CivicoZero (un progetto catanese di Save The Children con cui collabora anche Trame di Quartiere, ndr) mi ha fatto crescere». Dakarai non smette di sottolineare le possibilità che la vita qui offre: «In Africa se hai un’ambizione nessuno ti aiuta a realizzarla. Grazie alla borsa di studio posso frequentare l’università e continuare a formarmi». Cosa gli ha dato la forza per affrontare tutto? «I miei genitori si sono separati quando avevo un anno e io ho vissuto con mia zia. Qui avete assistenti sociali e tanti enti che aiutano a risolvere problemi familiari. La vita in Africa è tutta un’altra cosa, siamo 3 secoli indietro. Mi sono detto che se non avessi potuto vivere con i miei genitori sarei partito per cercare tutto ciò che mi era mancato crescendo». E alla fine è cresciuto di botto. Sono passati 7 anni da questi ricordi. Oggi ha 21 anni: ha frequentato qui la terza media concludendo con ottimi risultati; poi 5 anni di scuole superiori inseguendo la passione per le lingue fino alla scelta del corso di laurea in Scienze e lingue per la comunicazione internazionale presso l’Università di Catania: «Le lingua sono chiavi che aprono ogni porta». Lo sa bene lui che ne parla 5, oltre ad alcuni dialetti africani. Il futuro? A questa parola sembra commuoversi. «Mi piacerebbe diventare assistente di volo ma voglio accrescere le mie competenze seguendo il mercato del lavoro. Più ne sai meglio è». E la cittadinanza italiana? «Se tutto va bene arriverà tra tre anni, ma io mi sento già italiano, a dire il vero cosmopolita. Quando sono sbarcato ho detto di non essere africano, né europeo ma figlio del mondo: in quanto tale non ho il diritto di circolare per il pianeta rispettando i miei simili e le loro culture?»

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