Comunicazioni ufficiali solo in maltese, consulenze mediche rifiutate e cacce all’untore.  Le storie di alcuni giovani emigrati e delle loro difficili quarantene

Preoccupati, smarriti, discriminati. Così i siciliani residenti a Malta vivono l’emergenza coronavirus. All’incertezza generale si aggiungono difficoltà comunicative: nonostante tra le lingue ufficiali dell’isola vi sia anche l’inglese, infatti, le conferenze stampa governative relative alla pandemia vengono diffuse soltanto in maltese, obbligando i nostri connazionali che non lo comprendono a tenersi informati attraverso i quotidiani o ad affidarsi alla mediazione delle aziende per cui lavorano. Non è soltanto la barriera linguistica: tra discriminazioni e difficoltà ad accedere al sistema sanitario locale, vi raccontiamo le testimonianze di alcuni giovani che per lavoro hanno scelto la piccola isola come meta.

SICILIANI IN QUARANTENA. «Sono rientrata a Malta il 9 marzo – racconta Carla, che ci ha chiesto di non rivelare il suo vero nome – due giorni dopo, compresa la necessità di auto-isolarci, insieme con il mio ragazzo abbiamo chiamato i numeri dedicati all’emergenza.  Volevo fissare una visita dal medico, per via di un raffreddore pregresso, e avere indicazioni su come fare la spesa, ma per giorni non siamo riusciti a parlare con nessuno. In compenso la voce guida ci annunciava che premendo un tasto avremmo potuto denunciare chiunque fosse stato all’estero e lo avesse nascosto». Alla spesa Carla ha ovviato grazie alla solidarietà di alcuni amici, che hanno fatto lunghe code al supermarket al posto suo, mentre per avere un appuntamento dal dottore ha dovuto attendere la fine della quarantena, seppur rassicurata telefonicamente dal medico sull’inutilità di fare un tampone. «Finito l’isolamento – continua – sono finalmente riuscita a recarmi in ambulatorio per farmi visitare, poiché accusavo un dolore al petto che ricollegavo al raffreddore contratto prima di recarmi in Italia. Il medico però, avendo saputo che provenivo dalla Sicilia si è rifiutato categoricamente di visitarmi, invitandomi a chiamare i numeri di emergenza per sottopormi al tampone ed esigendo comunque i 10 euro previsti per il disturbo». Tuttora Carla non ha ben capito cosa dovrà fare: i medici ai numeri del governo le hanno detto che i sintomi non corrispondono a quelli del coronavirus e lei ha ancora un dolore al petto che nessuno ha visitato.

DISCRIMINAZIONI AL LAVORO. La trentenne Federica, anch’essa costretta all’isolamento a causa dei suoi contatti con un’amica rientrata recentemente a Malta dall’Italia, ci spiega le conseguenze di questa confusione diffusa. «Ho riscontrato una gestione sommaria della quarantena. All’inizio è stata imposta solamente a coloro che tornavano da alcuni Paesi come l’Italia, il Giappone e la Corea del Sud, ma altri stranieri sono stati scherniti al lavoro. Prima che la quarantena venisse estesa anche ai provenienti da altre nazioni, nella mia azienda alcuni hanno scaricato la rabbia su un collega che tornava dalla Spagna». Come ci racconta il 26enne Antonino, questo clima del sospetto non ha risparmiato nemmeno gli italiani: «Nella fabbrica in cui svolgo la mia attività, alcuni maltesi si erano rifiutati di lavorare insieme agli italiani perché incolpati dei contagi. È intervenuto il manager suggerendo a coloro che si erano lamentati di mettersi in malattia qualora non avessero voluto lavorare a contatto con gli altri». Questo atteggiamento discriminante e xenofobo  non ricorda quello che in Italia abbiamo riservato ai cinesi all’inizio della pandemia?

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