Dal sangeli al lattume viaggio in Sicilia fra orrori da gustare
«Cosa ci offre l’Europa per fine cena? Un gustoso biscotto alla farina di vermi. Un film dell’orrore? No, ce lo chiede l’Europa di mangiare da schifo». È cominciato così il servizio della trasmissione Anni 20, in onda su Rai2, dedicato al recente regolamento approvato dagli Stati membri dell’Ue che ha dato il via libera a una proposta della Commissione europea che consente l’uso di vermi della farina gialli essiccati come nuovo alimento. Servizio che ha scatenato accuse di antieuropeismo ai vertici Rai.
Se al posto di un biscotto alla farina di vermi, l’Europa avesse offerto un piatto di sangeli o di lattume, le reazioni sarebbero state diverse? Beh, molto probabilmente no, non appena fossero stati rivelati con quali ingredienti sono composte le pietanze citate. Perché, come insegna lo chef e scrittore americano Andrew Zimmern, massimo esperto di “orrori da gustare”, «un alimento considerato normale in un Paese può sembrare esotico in un altro».
All’Indiana Jones del cibo poteva sembrare bizzarro rosicchiare un coniglio alla stimpirata o gustare un gelo di anguria, che per noi siciliani rappresentano invece vere leccornie. Tuttavia, esistono piatti davanti alla cui consistenza o agli ingredienti che li compongono sono in molti a “schifiarsi”. Ad esempio, se non hai lo stomaco di un palermitano, è un tour dell’orrore la degustazione del cosiddetto cibo da strada. Frittole, quarume, stigghiola, pani câ meusa, carcagnola, ‘o père e ‘o mussu ‘e puorcu rappresentano il trionfo del pulp gastronomico, fatto di frattaglie, resti e strutto. Bombe ad alto potenziale di colesterolo. Cibi in cui s’inzuppano tutte le culture dei popoli che hanno dominato Palermo. E li trovi nelle strade, tra vicoli e mercati.
Le frittole sono un insieme eterogeneo di frattaglie di vitello (scarti di macellazione, “grassetti”, piccole cartilagini, ossa, etc…) che vengono prima bollite quindi rosolate, spesso con lo strutto. Il quarume è un piatto caldo composto da interiora di vitello cotte nel brodo. Le stigghiole sono budella di agnello (ma anche capretto o vitello), lavate in acqua e sale, condite con prezzemolo, con o senza cipolla, infilzate in uno spiedino, o arrotolate attorno a un cipollotto, e cucinate direttamente sulla brace. Si mangiano calde, condite con sale e limone. Il pani câ meusa è un panino (cosparso di sesamo) condito con milza e polmone di vitello, dopo essere stati bolliti e soffritti nella sugna. Il panino può essere “maritatu”, ossia abbinato al caciocavallo grattugiato o alla ricotta; oppure “schettu” (celibe), senza alcun condimento. Oppure arricchito unicamente da una spruzzata di succo di limone. ‘O père e ‘o mussu ‘e puorcu, ovvero il piede e il muso del porco è un piatto di frattaglie scartate dai nobili ed elevate al rango di “carne” dal popolo. Simile nelle parti usate del maiale allo zuzzu del Catanese o alla gelatina della zona degli Iblei, dove cotenna, zampe, testa, coda, lingua, orecchie e altre parti meno nobili del suino sono unite da un composto gelatinoso.
Sempre nel Palermitano si trova la carcagnola, ovvero le parti inferiori delle zampe del vitello, i carcagni, appunto dalla consistenza callosa e compatta. Poi le rascature, che, come dice il nome stesso, si ottengono “raschiando” i recipienti utilizzati per la preparazione di panelle e crocché. I residui vengono mischiati, formando un nuovo impasto, che si frigge. Piatti poveri, nati dall’arte di arrangiarsi con gli scarti lasciati dall’aristocrazia.
Spostandoci nelle vicine province di Trapani e Agrigento, troviamo preparazioni molto similari, in cui l’agnello ha un ruolo da protagonista. È il caso della curatedda, chiamata anche curateddra o catteda, dal latino corātum (coratella in italiano). In un pentolone lo stregone, pardon, il cuoco mette insieme diverse parti dell’agnello, in particolare: fegato, cuore, milza, polmone, intestino, rete, reni, grasso dello stomaco. Poi aggiunge patate, cipolla, alloro e aglio. Si prepara in due versioni: fritta con olio in padella oppure in pentola con brodo e estratto di pomodoro. Tempi di digestione: una settimana circa. Anche la testina di agnello è molto apprezzata, e gli occhi sono la parte più ricercata.
Tra le prelibatezze della zona le lumache, in tutte le loro versioni: scazziddri, lumache nere, muntuna (o anche crastuna), che in Francia diventano le succose e prelibate escargot, babbaluceddri, lumachine. Che, nella Sicilia orientale, vengono chiamate vavaluci o ‘ntuppateddi, lumache chiuse, tappate, che si trovano sottoterra e, nel Lentinese, si cucinano con peperoni arrostiti e funghi di carrubo.
Nessun animale si salva. Nella patria dell’“arrusti e mangia”, è la carne di cavallo a dominare sulle graticole. Puledro, purosangue, corsiero, stallone o ronzino che sia, a Catania si trasforma in polpette, involtini, braciole.
Sempre all’ombra dell’Etna è diffuso il sangeli (in italiano “sanguinaccio”), piatto prodotto utilizzando il budello del maiale, riempito di sangue dell’animale, cotto nelle tradizionali quarari.
Sono del Modicano ‘u sfuogghiu, pasta sfoglia fatta con lo strutto ripiena di polmone, fegato e cuore di agnello (ma c’è chi usa le meno orride salsiccia e ricotta) e i pastizzi, pastiere di carne tipiche del periodo pasquale che anticamente venivano preparate utilizzando la carne di agnello mischiata con riso bollito che nelle famiglie più povere veniva sostituito dalle interiora di capretto o di agnello. Oggi si preferisce realizzare il ripieno con un misto di carne bovina e di maiale.
Se non siete ancora sazi, nelle campagne degli Iblei, può capitare anche di gustare la carne di riccio, considerata una pietanza «bona e sapurita più do porcu». Si mangiava soprattutto nel periodo in cui il simpatico animale si ciba di ghiande e frutta. Prima di essere cucinato, il riccio veniva scannato e liberato di tutti gli aculei.
Non solo street food di terra, ma anche di mare. E dal genere pulp si passa alle “luci rosse”. Una prelibatezza tipica della cucina siciliana, ma anche sarda, si ottiene dalla lavorazione della sacca del liquido seminale dei maschi del tonno e della ricciola, più di rado dello sgombro. È il lattume, che può essere considerato l’equivalente maschile della bottarga. Del resto, se mangiamo le uova di pesce, perché non dobbiamo apprezzare anche lo sperma?
In tema è il cetriolo di mare, volgarmente noto come “minchia di mare”, animale appartenente alla famiglia delle oloturie. Il cetriolo di mare è commestibile, e si presta a sfiziose ricette di pesce. Oggi è più raro trovarlo perché in Italia la sua pesca è stata vietata al fine di tutelare la biodiversità e l’ecosistema. Tra gli “orrori da gustare”, secondo Andrew Zimmern, ci sarebbero anche gli spaghetti ‘ccu niuru ri sicci, fatti utilizzando l’inchiostro nero con cui le seppie si difendono dai predatori. Chi li mangia, in effetti, si ritrova con denti e lingua dal colore scuro.
Dal mare al fiume. Non per pescare pesci, ma rane. Molto apprezzate non soltanto in Padania, ma anche sulle rive del Simeto. A Paternò, in particolare, dove vengono chiamate larunchi, e nel mese di settembre viene organizzata una specifica sagra. Si cucinano in tutti i modi: pastellate fritte, in ragù per arancini, con il cous cous, col riso o in guazzetto.
Dulcis in fundo, gli ‘mpanatigghi di Modica, trappola per vegani e vegetariani. All’interno di quei biscotti ripieni impanati, simili a piccoli panzerotti a forma di semiluna, c’è un composto di mandorle, noci, cioccolato, zucchero, cannella, chiodi di garofano e… carne di manzo.
Per digerire tutto, non può mancare un bicchierino colmo di Spiritu de’ Fascitrari, liquore esaltato da Virgilio, ricavato dall’acqua di scarto della lavorazione della cera a seguito della torchiatura dei favi, fino ad alcuni anni fa distillato clandestinamente a Sortino, oggi sdoganato come “nettare degli déi”.