Dall’inchiostro al rullino: il mondo dei vinti in bianco e nero del Verga fotografo
Chi vive di parole come fa uno scrittore sa che il paradosso è sempre dietro l’angolo. Alla fine di sforzi intellettuali titanici, di una estenuante caccia all’espressione più potente ed affascinante, si staglia spesso, infatti, una presa di coscienza spiazzante: le parole possono non bastare. E ciò che rimane, quando ciò accade, è un limite invalicabile ed invisibile, un sofferto salto nel vuoto che porta con sé una sgradevole sensazione di inadeguatezza. Lo scrittore, in questo senso, è colui che non smette mai di testare la propria ispirazione, sperimentando forme e linguaggi divergenti rispetto all’abitudine. Talvolta tale ricerca sfocia nella pittura, altre volte nella musica o nella fotografia. Proprio da quest’ultima numerosi letterati hanno preso le mosse per trovare un elemento complementare rispetto alla loro scrittura. Non ultimo il nostro illustre conterraneo Giovanni Verga, appassionato cultore della materia e amatore apprezzato tecnicamente, che attraverso i propri scatti realizzò un connubio straordinario tra inchiostro ed immagini, tra realtà e finzione, tra pagina e inquadratura. Benché, d’altra parte, il suo avvicinamento al mondo delle immagini fosse stato pressappoco frutto di una coincidenza – il ritrovamento di una vecchia macchina fotografica appartenuta allo zio –, tale dote si rivelò preziosa anche per la sua attività di novelliere e romanziere, che poté, in qualche misura, usufruire di una spiccata verosimiglianza proprio in virtù di quelle esperienze “sul campo”.
Non è un caso, del resto, che le due declinazioni della poetica di Verga abbiano una matrice storica comune, rintracciabile nella rivoluzione artistica condotta dal pittore francese Gustave Courbet a metà del XIX secolo e passata poi all’immaginario comune con la denominazione di Realismo. Alle sue tele, infatti, si dovette un netto cambio di paradigma rispetto alla scelta dei soggetti: non più saghe mitologiche o scene sacre, non più iconografie classicissime ed ingessate, ma scorci di vita quotidiana, sofferente, faticosa, umile. Un vero e proprio ritratto del reale, appunto, spogliato di qualsiasi idealizzazione e carico di una crudezza che invocava a gran voce profonde riflessioni. Esattamente lo stesso principio che si propose di perseguire Verga nel tratteggiare meticolosamente il cosiddetto Ciclo dei Vinti culminato nella tragica vicenda dei Malavoglia, affresco umanissimo e spietato di una Sicilia fragile e impotente, travolta dall’indiscriminata furia del progresso e appesa disperatamente alle proprie, tanto secolari quanto effimere, certezze. Il medesimo spirito animò gli scatti dello scrittore catanese, che mai nascose la sua aspirazione massima: scomparire dietro le parole e lasciare che i personaggi, con il loro agire, si raccontassero. Un’aspirazione che trovò coronamento proprio attraverso la fotografia, che gli permetteva di eclissarsi dietro l’obbiettivo e di immortalare quegli istanti istanti di ordinaria miseria che avrebbero poi affollato le sue opere. All’occhio del Verga fotografo, infatti, non sfuggono vicoli rurali in piena decadenza, gli sguardi persi nel vuoto di famiglie numerose che si chiedono come sopravvivere fino al giorno successivo, le immancabili imbarcazioni attraccate in un suggestivo porticciolo, pronte per solcare il mare minaccioso nella speranza di vincerne la resistenza e di trarne prezioso nutrimento. Ma anche lo struggente broncio di una bimba adagiata sul davanzale di casa, sopra delle macerie di pietra, indispettita forse da quell’indiscreta intrusione. Indispettita forse da un futuro che non si cura dei suoi immensi sogni.
Letteratura e fotografia, nelle mani sapienti di Verga, finirono per compenetrarsi fittamente. Per diventare l’una il crudele riflesso dell’altra. Per raccontare storie parallele di destini in bilico, di luoghi accarezzati da un sottile refolo di speranza, di piccole cause condannate al dimenticatoio e salvate soltanto da una sbiadita patina di bianco e nero. A quei cuori stanchi eppure palpitanti Verga dedicò sempre la propria attenzione. Non, probabilmente, con l’illusione di poter stravolgere le loro sorti denunciando i loro disagi. Ma con la determinazione di chi vuole gettare luce sull’esistente. Di chi ha saputo catturare frammenti di realtà trasformandoli in eterna memoria.