Pensare in siciliano è come cantare: Borgese e l’inimitabile melodia della lingua

Se chiedessero ad ognuno di noi di indicare la caratteristica saliente che distingue l’essere umano da ogni altra creatura, difficilmente saremmo in grado di fornire una risposta univoca. Qualcuno, infatti, individuerebbe questo quid nella capacità di elaborare soluzioni complesse, articolate, frutto del raziocinio; altri, probabilmente, chiamerebbero in causa la coscienza di sé, l’abilità di dare un nome alle proprie emozioni e alle proprie debolezze; altri ancora, più semplicemente, finirebbero per fare riferimento al pensiero e alle sue infinite ramificazioni. Eppure, un fattore che accomuna tutte queste considerazioni esiste. Ed è la parola. Ogni espressione della nostra umanità dipende in maniera vincolante dal grado di familiarità che abbiamo con il linguaggio. Non è forse vero che i sentimenti assumono una forma soltanto se nominati, analizzati, rivissuti attraverso un discorso? Non è forse nel parlato che si sedimentano le emozioni ad essi connessi? E, d’altra parte, non è forse la parola a rappresentare la base imprescindibile della struttura del nostro pensiero? Ogni codice linguistico, si sa, non è appena uno sterile insieme di segni e di convenzioni, di suoni e di regole, ma è il riflesso di abitudini secolari e spesso inconsce, un patrimonio immateriale e mobile che identifica una comunità rispetto ad un’altra. Se ciò è vero per gli idiomi nazionali – al netto delle contaminazioni e delle mescolanze a cui inevitabilmente vanno incontro – tanto più risulta esserlo per quelli regionali come il siciliano, i quali, anzi, sottraendosi alla necessità di mettere d’accordo un gran numero di parlanti come accade per l’italiano, possono concedersi il lusso di mantenere una certa dose di “creatività”. Al punto da trasformarsi in qualcosa che va oltre i concetti di lingua e linguaggio.

Le feconde peculiarità della nostra parlata non sfuggirono certo ai grandi esponenti della letteratura isolana. Che di parole, d’altronde, nutrivano continuamente sé stessi e i loro lettori. Il polizzano Giuseppe Antonio Borgese – pungolato dalla più che trentennale emigrazione a riannodare le fila con le proprie origini – arrivò persino a dedicare un articolo alla questione nel 1952, intitolandolo significativamente Accenti. Perché, almeno per un siciliano, non esiste espressione verbale priva di accompagnamento gestuale, di sottolineature enfatiche e bonariamente esagerate, di inflessioni accuratamente ritmate e pause scenograficamente studiate. L’accento, nella definizione di Borgese, è esso stesso riverbero di uno stato d’animo, traduzione convinta di una intera visione della vita, partecipazione emotiva alle sorti della conversazione. Nel suo misterioso alternarsi di unità, addirittura, Borgese vi scorse un che di musicale: «L’accento: quest’aura del discorso, odore, si direbbe, della frase – scrive nell’articolo – ritmo che il metronomo non scandisce, diagramma sul cui andirivieni fluttua l’inafferrabile. Altrimenti detto intonazione; musica d’intervalli così brevi che nessuna notazione li trascrive; eppure è quella che è e non altra, e può essere erronea anche quando ogni altra cosa, pronunzia, vocabolario, sintassi, è a posto». Una sorta di melodia pensata, insomma. Personale e inimitabile come la migliore delle composizioni. «Non vivono due persone che parlino la stessa lingua – scrive ancora Borgese, questa volta in una lettera all’amico ed intellettuale Giovanni Alfredo Cesareo – né ci sono due momenti in cui una parola individui la stessa cosa. La lingua della poesia e della vita non è né una lingua morta, né una lingua concettuale (sostituibile, vale a dire, con un complesso di segni grafici senza suono). Il significato emozionale della parola varia da uomo a uomo, ed ogni sillaba è colorata dal tono del suo spirito».

Se il popolo siciliano possedesse una qualche anima collettiva, insomma, bisognerebbe cominciare a cercarla proprio dalla sua parlata. Custode naturale di tutte le differenze che ci rendono simili, spazio aperto e in continua evoluzione del nostro riconoscimento. Perché la lingua ci rende presenti a noi stessi e agli altri. Ci connette alla storia e ci prepara al futuro. E ci affratella come un canto di cui tutti conoscono e riconoscono ogni parola.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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