Daniele Malfitana, Scuola Superiore di Catania: «Pronti per il futuro, ma la politica ci supporti»
Un ascensore sociale, un contesto in cui formare nuova classe dirigente, un’occasione per introdurre precocemente alla ricerca scientifica, un’opportunità di dialogo e di riscatto per il territorio, un riferimento per il Mediterraneo. Nelle intenzioni della Scuola Superiore di Catania, fin dalla sua nascita nel 1998, c’è molto più del sogno di una “Normale del Sud”. C’è l’ambizione di creare un unicum, in grado di valorizzare il merito e dialogare con il mondo. C’è l’idea di rendere nuovamente centrale e non periferica la Sicilia. C’è un insieme di Visioni che possono diventare prospettive concrete per i giovani dell’isola e non solo. Eppure, pur inserita nel contesto delle “Scuole Superiori” (oltre alla Normale di Pisa ne esistono altre come la Sissa di Trieste, e recentemente la Scuola Superiore Meridionale di Napoli) non sempre la SSC è stata capita a fondo. Da alcuni considerata troppo autoreferenziale, troppo elitaria (a scapito del suo accesso gratuito e per merito), troppo costosa per le casse dell’Ateneo (da cui dipende interamente), da altri semplicemente conosciuta in modo parziale o totalmente ignota, la Scuola Superiore di Catania, a quasi venticinque anni dalla sua fondazione può e deve ancora esprimere la totalità del suo potenziale.
Da ventiquattro anni a questa parte, da qui sono transitati giovani brillanti, divenuti ricercatori di livello internazionale, scienziati, docenti universitari. La maggior parte di loro ha visto il proprio orizzonte in contesti prestigiosi, ma estremamente lontani dall’isola, facendo spesso capolino in quelle pagine di giornale dedicate ai “cervelli in fuga”, che inevitabilmente ci portano a farci domande su cosa abbiamo sbagliato in Sicilia. Su quale sia il passo non compiuto che possa riportare i ragazzi a casa. Certo, qualcuno di loro (ad esempio la ricercatrice ematologa Alessandra Romano o il fisico esperto di machine learning Luca Naso) ha deciso di scommettere sulla nostra terra e di far ritorno. Pochi. Troppo pochi, forse, per poter cambiare davvero le cose.
Eppure, le iniziative nate tra le aule e i dormitori di Villa San Saverio hanno avuto una ricaduta significativa per l’isola. Basti pensare al TedX Catania, nato da un’iniziativa degli allievi SSC, oppure ai numerosi colloquia che negli anni hanno visto transitare dalla Scuola premi Nobel, top scientist, personaggi di rilievo del mondo della cultura e della politica. Incontri che non hanno visto gli allievi come semplici spettatori passivi, ma protagonisti attivi del dibattito: come dimenticare l’acceso intervento-scontro tra uno degli studenti e l’allora ministro Elena Boschi sul tema della riforma costituzionale prevista dal governo Renzi?
La Scuola, specie durante gli anni in cui è stata guidata dal prof. Francesco Priolo – fisico di fama internazionale, oggi rettore dell’Università di Catania – ha rafforzato e definito una direzione chiara, di apertura ed alto profilo. Una direzione che oggi vuol essere portata avanti da un umanista, il prof. Daniele Malfitana, archeologo già a capo dell’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali del CNR e attuale direttore della Scuola di specializzazione in Beni archeologici dell’ateneo catanese. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare in che modo questa istituzione di eccellenza proseguirà il suo percorso negli anni a venire.
La Scuola Superiore di Catania nasce nel 1998 su modello della Scuola Normale Superiore di Pisa, una realtà che ha formato una parte rilevante della classe dirigente di questo Paese e che da sempre ha anche svolto un importante ruolo di ascensore sociale. Tuttavia, il modello della Normale è stato accusato nello scorso luglio da alcune sue diplomate di essere vetusto, a tratti sconnesso dalla realtà e incentrato su una retorica dell’eccellenza che avrebbe mostrato i suoi limiti. In che modo la Scuola Superiore di Catania può coniugare i pregi di una istituzione come la Normale con le esigenze proprie di questi tempi?
«Le ex allieve della Normale nel loro appello hanno sottolineato le difficoltà di un sistema universitario che necessita di essere ripensato e i limiti di un sistema che sembrerebbe oltretutto essere orientato esclusivamente all’accademia. La SSC ha nel suo DNA alcuni valori fondanti che la caratterizzano. La multidisciplinarietà, ad esempio, pone i nostri allievi in un continuo confronto tra l’ambito umanistico e quello scientifico, una condizione essenziale per vivere questo tempo, andare oltre il semplice concetto di “competenze” e abbracciare quello di problem solving. Il punto nodale, credo stia nella necessità di ripensare il modo di fare didattica oggi. Il superamento dell’approccio esclusivamente basato sulle lezioni frontali, il quale per forza di cose aumenta la distanza tra docenti e studenti, potrebbe essere una chiave di volta. Penso al modello della “classe scomposta” e alle sue implicazioni. Oltre a questo, è necessario che il rapporto con il territorio diventi maggiormente virtuoso e che da parte nostra ci sia particolare attenzione al percorso dei nostri allievi dopo la laurea e il diploma della SSC. La Scuola Superiore Meridionale di Napoli, in questo senso, ha dedicato molto al terzo livello, e sta facendo tesoro degli investimenti che aziende come Apple hanno fatto sul territorio. Tuttavia la realtà catanese non è meno vivace. Non bisogna dimenticare che la SSC nasce da un Consorzio che aveva al suo interno una grossa realtà come STMicroelectronics, la quale rappresenta ancora oggi uno sbocco importante per alcuni dei nostri allievi della classe di Scienze Sperimentali».
E per quello che concerne l’ambito umanistico? È possibile per un giovane immaginare uno sbocco che non sia la carriera accademica? E che opportunità potrebbero esserci in un contesto territoriale come il nostro?
«Nell’ambito umanistico la partita si gioca sul piano dell’industria culturale. Alcuni anni fa, da direttore dell’Ibam CNR, ho molto sostenuto l’idea che l’Anfiteatro Romano di Catania potesse essere dato in gestione a dei giovani. Qui abbiamo dei laureati molto in gamba nel settore dei beni culturali che avrebbero potuto guidare al meglio un’impresa di questo tipo. Chi l’ha detto che un archeologo debba necessariamente finire dietro una cattedra? Ecco perché oggi sostengo che la SSC debba essere un luogo dove si produce conoscenza, da far poi diventare un prodotto da capitalizzare nel contesto territoriale. Oggi si parla spesso di ecosistemi, ma cos’è un ecosistema se non un contesto in cui abbiamo l’infrastruttura, le competenze, il sistema formativo e una imprenditoria territoriale ricettiva? È a questo che dobbiamo tendere, anche in ottemperanza alle linee guida del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza».
Ha citato il “progetto Anfiteatro” del 2017. Quell’operazione, tuttavia, nonostante la gestione temporanea dell’Ibam CNR non ha avuto i risultati sperati e il sito, negli anni a venire, è caduto nuovamente in uno stato di semiabbandono. Cosa è andato storto?
«Credo che il principale limite sia stato dato dalla politica, che allora non ha capito che il modo per risolvere la crisi dei beni culturali in Sicilia può essere solo quello di una grande apertura di gestione dei siti a giovani. Tuttavia il sito è oggi un cantiere di restauro, e penso che quell’opportunità sia ancora da cogliere. Non è detto che ciò non possa accadere in futuro».
Di cos’altro dovrebbe accorgersi la politica?
«Dell’importanza di attingere alle competenze che qui, a Villa San Saverio, si formano. Mi augurerei, per esempio, che il parlamento regionale, in maniera bipartisan, inserisse nella finanziaria su cui sta lavorando, un emendamento ad hoc, impegnandosi a finanziare annualmente la SSC con l’obiettivo di specializzare professionisti che poi contribuiranno al rinnovamento dell’apparato regionale, in tutti i settori. Il Presidente della Regione (il quale peraltro ha contribuito, da presidente della provincia di Catania, alla nascita di questa realtà ndr) ha promesso di venire presto a trovarci a Scuola. Noi faremo la nostra parte per mostrare una direzione. Del resto, la Scuola rappresenta un unicum in una regione al centro del Mediterraneo e potrebbe diventare un vero e proprio Hub di riferimento, per citare ancora il PNRR sul quale stiamo lavorando molto seriamente come Ateneo. Sono tuttavia consapevole che affinché questo accada è necessario lavorare molto sulla percezione di ciò che accade qui dentro con un grande lavoro di comunicazione che possa spiegare cosa questa scuola può rappresentare per il Mediterraneo e per le menti brillanti che vi risiedono».
In che modo, secondo lei, sarebbe dunque più opportuno raccontare all’esterno la Scuola e le sue potenzialità?
«Credo che il fulcro di tutto siano le allieve e gli allievi. Per questo ho chiesto loro di realizzare una mappatura completa delle loro competenze, per meglio capire quali siano i loro progetti e obiettivi. Lo scopo sarà anche quello di organizzare una serie di iniziative in cui siano loro a scendere in campo per raccontare cosa avviene quotidianamente in questa realtà, che voglio ricordare ha tra i suoi pilastri la residenzialità, la quale porta alla condivisione di idee e progetti. Da questo vogliamo partire per parlare alle scuole e alla città. Naturalmente tutto questo sulla base di un piano comunicativo ben studiato e non improvvisato, che vede tra l’altro una serie di grandi iniziative come elemento catalizzatore».
Come il “Festival delle Istituzioni” programmato per il prossimo maggio?
«Quella sarà senz’altro un’occasione preziosa per rivolgerci a un pubblico ampio. Si tratterà di una serie di incontri, lezioni e dialoghi intorno all’idea di istituzione, nelle sue molteplici declinazioni, a partire dalle sue trasformazioni e dal suo impatto sul futuro della politica, dell’economia, della governance delle crisi. Lo abbiamo organizzato insieme alla Società editrice “Il Mulino” e dal 27 al 29 maggio condurrà a Catania relatori di alto profilo come Francesco Clementi, Paola De Vivo, Maria Rosaria Ferrarese, Antonio Padoa Schioppa, Gianfranco Viesti. Tuttavia stiamo cercando di fare di più: insieme al collega Paolo Giulierini, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, stiamo lavorando all’idea di organizzare simultaneamente al Festival, presso l’ex cappella di Villa San Saverio (spazio attualmente in restauro ndr) una mostra che esplori il tema delle istituzioni nel rapporto del Regno delle due Sicilie. Abbiamo già individuato alcune opere, come il busto dello statista ateniese Solone o alcune figure della Roma imperiale, che ben simboleggiano le istituzioni. Il Festival sarà un’occasione preziosa per accrescere la percezione della nostra realtà».
Cos’altro c’è in cantiere per il futuro?
«La Scuola si pone in continuo dialogo con il territorio. Un’altra iniziativa già ufficializzata sarà la quarta edizione del workshop “Il giornalismo che verrà” (una iniziativa Sicilian Post) che si terrà dal 13 al 20 giugno. Il progetto, nato proprio qui nel 2018, non solo ha ospitato alcuni grandi nomi dell’informazione internazionale in incontri rivolti alla città e agli addetti ai lavori, ma ha anche aperto per alcuni giorni il campus della Scuola a dei giovani selezionati per merito (studenti o laureati provenienti da tutta Italia) che hanno preso parte gratuitamente a lezioni e laboratori. Naturalmente queste non saranno le uniche iniziative in programma, e stiamo anche lavorando già da adesso alla progettazione delle attività per celebrare i nostri primi venticinque anni».