Davide Campisi “Joca” fra tamburi filastrocche ed elettronica
Filastrocche scaccia paura, filastrocche che proteggono, che educano, che curano il cuore e che fanno sorridere, filastrocche ancestrali che hanno la capacità di restare in mente, che passano di bocca in bocca da tempo immemore. Come quella che la piccola Giulia ha cantato un giorno al papà e che è diventata «simbolo di una spensieratezza negata dalla pandemia mondiale» e punto di partenza di Joca, il nuovo album di Davide Campisi, il papà di Giulia.
«Avendo in casa due bambini piccoli e con una moglie che insegna in un asilo nido, è naturale che il mondo infantile sia entrato nel processo creativo dell’album», spiega il percussionista ennese. «Ritorno a “jocare”, a giocare, ma d’altronde la musica è un gioco. In tutte le altre parti del mondo la musica è intesa come tale: “to play”, in inglese, vuol dire giocare, poi esteso al significato di suonare».
Etica Peletica, singolo e video dell’album, è la filastrocca che Davide Campisi ha appreso dalla figlia, la cui vocina fa capolino nella registrazione: «Non figura in alcun libro, si diffonde soltanto sul passaparola. È un pezzo tradizionale che ho rispettato nella sua essenza», spiega. «Al contrario, in Cuccurucuntu, altra filastrocca, c’è il mio intervento di autore. Racconta di un antico gioco didattico che si faceva ai bambini: la maestra si metteva sulle ginocchia un allievo e gli chiedeva con quante dita aveva toccato la sua schiena. Era un modo per insegnare la matematica».
«Il tamburo mi ha fatto scoprire la mia identità siciliana, mi ha insegnato a scrivere e ad usare la mia voce. Mi ha aiutato a esprimermi da solo. Per questo motivo, ho un rapporto intimo con il mio strumento»
Le voci infantili per evocare un mondo ancestrale, antico, dal quale si alzano suoni gioiosi, in contrapposizione a quelle del mondo moderno e adulto che entrano in Joca in modo drammatico, spingendo a riflessioni, lanciando provocazioni, raccontando storie tragiche, di solitudine e indifferenza. Tra un Oriente e un Occidente geografici e musicali si muovono i Caminanti, quei tanti profughi che muoiono nel tentativo di attraversare il deserto per raggiungere la costa nordafricana in cerca poi di una “carretta del mare” alla volta della costa italiana. Tema ripreso e sviluppato nel sogno della canzone Stati Uniti d’Africa. C’è la denuncia dell’indifferenza nei confronti del prossimo nella storia vera della donna scomparsa e poi ritrovata dopo anni in casa, senza vita. È la parte autorale che s’incrocia con quella legata alla tradizione. Il cantautore si confonde con il percussionista. «Ma non mi sento un paroliere, un cantautore come Guccini o De Gregori che raccontano storie», si schermisce Campisi. «Io scrivo concetti, pensieri. Sono, soprattutto, un percussionista».
Con i tamburi il quarantaduenne ennese aveva cominciato a giocare a 14 anni. «Oggi si va in palestra, ai miei tempi si andava alle prove», sorride. «Facevamo un concerto all’anno, ma almeno tre volte a settimana dovevamo provare». E, come molti suoi coetanei, Davide Campisi picchiava forte. «Avevo studiato batteria e suonavo in band hard rock tendente al metal». Verso i vent’anni la scoperta del tamburo a cornice. «Continuavo a suonare rock duro e parallelamente mi accostavo alla musica mediterranea». Poi la svolta. Difficile, tormentata. «Pensavo: “Tanti anni passati a studiare la batteria per passare a uno strumento popolare, povero, facile da suonare”. Mi sembrava di andare indietro». Invece… «Invece il tamburo mi ha fatto scoprire la mia identità siciliana, mi ha insegnato a scrivere e ad usare la mia voce. Mi ha aiutato a esprimermi da solo. Per questo motivo, ho un rapporto intimo con il mio strumento».
«Io sono innamorato di Enna. Vedo tanti giovani andare via. Rocca – la canzone che apre l’album – è una canzone che oppone all’amore la rabbia. Non c’è modo di restare qua e progettare il futuro. La mia è una denuncia per amore»
Voce e tamburo sono i pilastri portanti attorno ai quali Campisi costruisce le sue composizioni con la collaborazione di Riccardo Tesi all’organetto e Alex Valle alla pedal steel, tra gli ospiti dell’album. Punti di partenza per espansioni ritmiche che giocano con suoni elettronici, carezzando la tradizione. C’è la Sicilia, ma ci sono anche sonorità moderne e declinazioni in diversi stili musicali. Ci sono l’Africa e le carovane nel deserto e ci sono i “lamentatori” del periodo pasquale di Maria jattu na vuci: «Un dialogo forte tra la madre e il figlio che le chiede di benedirlo e andare via accettando il disegno divino». Un canto tipico dell’Ennese, dove sono molte e sentite le iniziative per la Settimana Santa. E la città al centro della Sicilia diventa il cuore di tutta l’Italia in Rocca, il brano che apre l’album.
«Io sono innamorato di Enna, dove sono rimasto a vivere e lavorare, così come di tutti quei luoghi dell’entroterra del nostro Paese che si stanno desertificando. A Enna, per la presenza di un polo universitario, si avverte di meno, ma anche qui i giovani stanno andando via. È una canzone che all’amore oppone la rabbia per i nostri tesori che non vengono valorizzati. Non c’è modo di restare qua, progettando un proprio futuro, si è costretti a partire per crearsi una vita nuova lontano dalle proprie radici. La mia è una denuncia per amore».
Quell’amore che i suoi fan, ma anche tante persone sconosciute, hanno mostrato nei suoi confronti aderendo alla campagna di crowdfunding lanciata per portare a termine la lavorazione dell’album in tempi grami come quelli della pandemia. «Proprio in questi giorni ho finito di inviare il disco a tutti coloro che hanno partecipato alla raccolta di fondi», è ancora meravigliato. «Sono arrivate adesioni anche dall’estero, dalla Germania, persino dal Myammar, dove suonai una volta».
Un amore che Davide Campisi ricambia con la creazione di una etichetta discografica, la “Suoni indelebili”, attraverso la quale «intendo valorizzare quei tanti artisti che non hanno la possibilità di mettersi in luce, senza barriere di genere né di nazionalità». L’importante è avere voglia di “jocare”.