Le minacce russe non troppo velate, gli allarmi sempre più pressanti lanciati dai reparti di intelligence a proposito di movimenti sospetti ai confini dell’Europa. Poi, di colpo, le sirene antiaeree. Sinistre colonne di fumo. Lo spettro che diventa realtà. È già passato un anno da quel fatale 24 febbraio 2022, dall’avvio formale della guerra in Ucraina. E ancora non si placa, non si spegne quella vivida sensazione di sgomento che ha travolto il mondo all’indomani dell’invasione russa. Dodici mesi che sembrano scivolati via in un batter d’occhio, ripetitivi nelle loro immagini di morte e devastazione. Eppure, per certi versi, infiniti. Infiniti per gli innocenti che non smettono di soffrire, certo. Ma anche per la struttura stessa del conflitto, che in appena un anno è andata incontro a notevoli metamorfosi, se non a veri e propri stravolgimenti, sia sul campo di battaglia che su quello della comunicazione. Che bilancio tracciare, dunque, sul suo andamento fino a qui nei giorni della triste e simbolica ricorrenza? E come leggere, in chiave futura, le ultime mosse degli attori coinvolti? Ne abbiamo discusso con Domenico Quirico, noto reporter di guerra de La Stampa, che di recente ha dedicato al tema della guerra russo-ucraina il suo ultimo libro, Guerra Totale. La bancarotta bellicista (Neri Pozza Editore, 2022). Lo abbiamo incontrato a Catania, nella quale è stato ospite dell’evento Il grido della pace, che la Comunità di Sant’Egidio ha organizzato per commemorare il primo anniversario dall’inizio delle ostilità.

Guerra totale affronta il tema della guerra in Ucraina da un’ottica del tutto particolare. Non si tratta, infatti, di una cronaca pedissequa dei fatti: quanto, piuttosto, di una serie di suggestioni e riflessioni personali. Cosa l’ha spinta ad adottare questo genere di racconto?
«Innanzitutto, una ragione di ordine pratico. A differenza di quanto accaduto con tutte le altre guerre che si sono succedute tra la fine del ‘900 e l’inizio del nuovo millennio, a questa, per una serie di motivazioni personali, non ho assistito direttamente. Perciò, cosa mi restava da fare? Ragionare su come viviamo il conflitto guardandolo in televisione, leggendolo sui giornali o scorrendo i social. Ho appuntato quotidianamente tutto ciò che destava in me una certa curiosità: reazioni, particolari eventi che si verificavano sul campo di battaglia, ciò che veniva raccontato e come veniva raccontato. Ne è venuto fuori una sorta di diario, che non vuole essere un insieme di quegli editoriali che tanto odio e che tentano di indovinare come la guerra andrà a finire, ma una serie di ragionamenti sull’immagine che questa dà di sé e sulle impressioni che mi ha suggerito. È stato, per me, un punto di vista insolito. Ma, in un certo senso, anche privilegiato».

«Ci sono uomini che saltano in aria dentro i carri armati, che vengono letteralmente liquefatti
e che non saranno mai più ritrovati. Ma nessuno ne parla: né dalla parte russa, né in Occidente. L’unica cosa che conta è che gli ucraini vincano»

Quali aspetti, alla luce di questa prospettiva diaristica, si sono rivelati più interessanti? Che tipo di evoluzione ha seguito il conflitto rispetto alle sue primissime fasi?
«Seguendo le vicende ucraine giorno dopo giorno, mi sono reso conto di aver fatto un passo in avanti rispetto al dibattito che in questo momento sta tenendo banco in Occidente. È come se da questa parte del mondo il tempo si fosse fermato al 24 febbraio di un anno fa: al fatto compiuto che Putin ha aggredito un paese sovrano e che, quindi, è necessario opporsi. Ma la guerra non è rimasta a quel punto, sempre uguale a sé stessa. Si sono verificati diversi eventi importanti, in entrambi gli schieramenti. Si è evoluta e si è pure involuta. Sono aumentati i soggetti coinvolti, è cambiato il modo in cui alcuni dei suoi protagonisti si presentano e, di conseguenza, è cambiato il nostro approccio alla questione. Io stesso ho uno sguardo ben diverso sulla guerra rispetto ai primi giorni del conflitto, in cui scrivevo a proposito delle mire del Putin post-sovietico. Prima, soprattutto nel nostro Paese, ci si chiedeva se mandare le armi equivalesse o meno ad una mossa difensiva. Ora siamo arrivati ai caccia, ai carri armati di ultima generazione, sono stati abbandonati i vecchi rottami della Guerra Fredda. Questo significa che la guerra, a poco a poco, si è impadronita di noi. Ci ha pervasi, ci ha assorbiti, ci ha riempiti di sé. La sua accettazione acritica è salita in maniera esponenziale. E questo è molto pericoloso».

Nel libro, lei definisce gli ucraini come degli “ostaggi di una guerra urbana”. Non crede che questo conflitto, attraverso le immagini martoriate di città come Mariupol, abbia reso evidente una certa distonia di fondo tra la patina di modernità di cui armi sofisticate e propagande raffinate sono ammantate e il sapore di antico che hanno questi brutali massacri?
«Questo è l’esempio perfetto di ciò a cui mi riferivo prima a proposito dei cambiamenti a cui la guerra è andata incontro. All’inizio, si prospettava l’utilizzo di missili e droni ipertecnologici, di strategie comunicative volte a confondere le informazioni a disposizione del nemico. La realtà è che, attualmente, in Ucraina si sta combattendo la Prima guerra mondiale. Trincee, artiglierie, città demolite pezzo per pezzo e trasformate in bunker più o meno imprendibili, in cui uomini armati e civili rimasti intrappolati si combattono come talpe, come topi, passando da un sottoscala ai sotterranei di una fabbrica demolita. Siamo regrediti a qualcosa di primitivo. Ma è questa la logica stessa della guerra, che ti riporta sempre, alla fine, ai suoi fondamentali, al suo nocciolo: allo scontro uomo contro uomo. In questa guerra le due facce convivono. Con l’aggravante che qui, da un momento all’altro, tutto potrebbe diventare fantascientifico, con bombe atomiche e missili capaci di attraversare gli oceani in pochi secondi. E c’è di più, una dimensione che ho notato essere sfuggita ai più. Quello che mi angoscia della guerra è che l’uomo non conta più niente: importa semplicemente il numero di pallottole a disposizione e quante se ne riescono a produrre. Ci sono uomini che saltano in aria dentro i carri armati, che vengono letteralmente liquefatti e che non saranno mai più ritrovati. Ma nessuno ne parla: né dalla parte russa, né in Occidente, dove il diritto alla vita di ogni singolo uomo dovrebbe essere la quintessenza della nostra civiltà. Che tutti questi uomini vengano dati in pasto ad una terribile fornace non interessa a nessuno. L’unica cosa importante è che gli ucraini vincano».

«Usa, Russia e Cina: questa è una triplice guerra tra imperialismi. Putin vuole che si intavoli
una discussione, ovvero ciò che gli americani
non vogliono. Per questo la guerra non si ferma»

L’interpretazione più gettonata da parte degli analisti nell’arco di questi dodici mesi vuole che i piani di Putin abbiano subito un forte rallentamento perché incapace di prevedere la resistenza ucraina e l’approdo ad una guerra di logoramento. È davvero così? E quanta possibilità di successo può avere la strategia dell’Occidente, che fino ad ora ha opposto quante più forze possibili con l’obbiettivo di costringere l’autocrate russo a sedersi ad un tavolo?
«Mi fa sorridere leggere di come tutti sembrino sapere perfettamente quali fossero gli obbiettivi di Putin. È stato persino scritto un libro dal titolo “Nella mente di Putin”. Probabilmente nemmeno i suoi collaboratori più vicini sanno con certezza quali siano le sue vere intenzioni. Lo hanno persino definito il nuovo Hitler, con velleità di conquista su tutta l’Europa. Tutte sciocchezze: davvero pensate che possa arrivare a Parigi un esercito che fa fatica a prendere Bakhmut? Se guardiamo alle mosse dell’Occidente, d’altro canto, bisogna dire che inglesi e americani hanno cominciato a preparare gli ucraini sin dal 2014. Io ero lì quando hanno avuto inizio gli scontri con i filorussi nel Donbass: le forze militari ucraine versavano in uno stato pietoso. In questi anni, però, sono state addestrate e trasformate in una compagine moderna che ha saputo resistere ai blitz dei generali russi. Così siamo arrivati alla situazione attuale. Ma credo che in ballo ci sia qualcosa di molto più grande ed è questo a determinare l’atteggiamento degli Stati Uniti».

Si riferisce agli incroci pericolosi tra gli interessi geopolitici delle superpotenze del pianeta, inclusa la Cina?
«Ritengo che Putin, attraverso la prepotenza delle sue azioni, stia cercando di ottenere quello che poi è il suo desiderio principale: ridiscutere degli equilibri del mondo. Che poi è esattamente quello che prevede anche il piano cinese. Dal loro punto di vista, non è più accettabile un mondo dove gli USA possano agire indisturbati da Okinawa al fondo dell’Africa. La Cina avanza delle pretese in virtù della sua crescita economica, la Russia per via delle sue 5000 testate atomiche e di un esercito ricostruito rispetto a quello sovietico degli anni ’90. Vorrebbero stabilire dei confini, delimitare aree in cui potere o non potere mettere piede, individuare zone grigie in cui contendersi le materie prime senza scontri diretti, come avveniva durante la Guerra Fredda quando i russi si trovavano in Mozambico, in Somalia, in Angola e gli americani supportavano i sudafricani o Mobutu. Le classiche dinamiche da imperialismi post-coloniali. Anche questa è una guerra di imperialismi, ma triplice. Putin vuole che si intavoli questa discussione, ovvero esattamente ciò che gli americani non vogliono. Questo è il senso della guerra. Per questo non si ferma. I poveri ucraini, che pensano di essere gli alfieri della lotta per la loro libertà, in realtà sono le pedine di un piano volto ad indebolire Putin, magari anche a farlo cadere, perché se perde è finito: non esiste autocrate che possa sopportare un insuccesso militare».

I fatti avvenuti in questi giorni, in effetti – tra le mosse dei russi nei confronti della Moldavia e della Transnistria e il ritiro dal trattato di non proliferazione nucleare, il viaggio di Biden nell’Est Europa e l’annuncio di Zelensky sugli ucraini vincitori nel 2023 – hanno chiarito come la conclusione del conflitto sia ben lontana. In che modo potrebbe essere trovato un punto di equilibrio?
«Dico sempre che la storia si può in qualche modo manipolare, ma la geografia no. E l’Ucraina, indipendentemente dalla presenza di Putin o di chi verrà dopo di lui, non può spostarsi di 1000 km più a Ovest. Continuerà ad essere il vicino di un enorme paese. Perciò, deve trovare il più rapidamente possibile, vista l’impossibilità di sconfiggerlo anche con l’aiuto relativo degli americani, una forma di decente convivenza, senza rinunciare alla propria sovranità e alla propria legittima volontà di vivere in un certo modo. L’esempio perfetto è la Finlandia: nel corso della Seconda guerra mondiale è stata sconfitta dalla Russia, ha fatto anche un brutto affare mettendosi coi tedeschi in cerca di rivincita e ha riperso di nuovo, però ha intelligentemente accettato alcune regole, che non erano la rinuncia alla sovranità, ma il non trasgredire alcuni dettami. E la Finlandia adesso è un paese occidentale, democratico, in cui il partito comunista non ha mai raggranellato voti tali da poter andare al potere, e con una economia di mercato aperta all’Occidente ma anche alla Russia. Non mi risulta che nessuno li abbia mai disturbati. Ecco, questa potrebbe essere la strada. Piuttosto che fingere di essere qualcosa che non si è».

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