Sarà anche uno di quei modi di dire triti e ritriti. Una di quelle frasi fatte, buone per ogni occasione. Il frutto di un facile entusiasmo. Eppure, più volte la vita e la storia hanno saputo darci dimostrazione di come la realtà possa ampiamente superare la fantasia. A maggior ragione quando si inizia a frugare con curiosità nell’immenso scrigno di mirabolanti peripezie della Sicilia che fu. Accade così che, tra i fumosi ricordi della metà del XVII secolo, faccia la sua comparsa una figura che sarebbe persino riduttivo definire peculiare. Un paladino della poesia cresciuto all’ombra della leggenda, un intellettuale dall’animo guerriero e ruggente. Un disperato amante che annegava la propria amarezza nella musicalità e nell’ironia della lirica dialettale. Per seguirne le orme – a dire il vero fin troppo sbiadite dal tempo – bisogna avventurarsi fino a Mineo: il suo nome era Paolo Maura e la poesia, fin dall’infanzia, era stata la sua più fedele compagna. Mito e poesia classica, tecniche della retorica, approfondita conoscenza del dettato dantesco: sono numerosi gli indizi sparsi nelle sue opere che ci consentono di ricostruire il profilo di un dottissimo e raffinatissimo specialista della parola. Che fin dai suoi primissimi passi, mossi nella splendida agiatezza bucolica della villa di famiglia, si dimostrò portatore di un destino più unico che raro. Di un’esclusività dai contorni rutilanti e fiabeschi.
Perché ogni storia fantastica che si rispetti non può che partire da una scoperta quasi sconvolgente, contraria al presunto ordine naturale delle cose. Quella di Maura non fu certo da meno. Si narrava, infatti, che all’interno della lussuosa abitazione, situata in contrada Camuti e significativamente conosciuta come Chianu a Maura, giacesse la misteriosa Pietra della Poesia, capace di instillare, con la sua sola vicinanza, soavi versificazioni nell’animo dei poeti. Della sua presunta presenza, oggi, non resta che qualche rudere scomposto: ma è proprio attorno ad essi che Maura e tanti altri suoi sodali erano soliti darsi appuntamento per dare vita a delle vere e proprie sessioni performative, fatte di tragicomiche declamazioni e di geniali improvvisazioni. Tutto, rigorosamente, sulla falsariga della poesia in siciliano. Persino nei secoli successivi, fino addirittura alla metà del ‘900, generazioni di poeti, improvvisandosi quasi pellegrini dell’arte, approdavano nelle campagne di Mineo per lasciare che quell’atmosfera magica sussurrasse loro qualcosa da tradurre in rima. Basterebbe già questa notazione, probabilmente, per fare di Maura una sorta di vate mistico della lirica isolana, uno spirito aleggiante legato alla sua pietra, un protettore dei talenti emergenti.
Fermarsi a questo, tuttavia, equivarrebbe a grattare soltanto la superficie di un fondale dipinto a motivi ariosteschi. Paolo Maura, d’altro canto, non fu solo un poeta, ma un cavaliere di cui vale la pena cantare “l’arme, gli amor, le cortesie e l’audaci imprese”. La sua giovinezza, in un senso e nell’altro, fu sconvolta dall’incontro con la giovane figlia della potente e spietata famiglia dei Maniscalco. Il loro amore fu aspramente osteggiato: Maura venne più volte raggiunto da provvedimenti legislativi che ne causarono la prigionia in giro per l’isola, senza che questi drammatici trascorsi potessero fiaccarne la volontà. Nemmeno quando alla fanciulla fu imposta la clausura: le cronache del tempo ci riportano di un uomo infaticabile nella sua sete di amore e giustizia. Ogni giorno ed ogni notte il nostro si piazzava dinanzi al monastero, in attesa che l’amata gli concedesse anche solo una fugace occhiata. Qualcuno narra persino che i due, di tanto in tanto, riuscissero ad incontrarsi e che il Maura avesse trovato un passaggio segreto nelle fogne. Fu probabilmente questo eccessivo ardire a costargli caro: il poeta venne nuovamente incarcerato, questa volta per un periodo che non è semplice quantificare. Quando la libertà finalmente sopraggiunse, Paolo Maura non fu più l’uomo che era stato: costretto probabilmente dall’ultimatum dei Maniscalco a sposare un’altra donna, visse la seconda parte della sua esistenza tormentato da una sottile inquietudine. I versi taglienti e brillanti con cui si dilettava a schernire satiricamente i difetti e i paradossi della società del suo tempo lasciarono il posto a sommesse riflessioni moraleggianti. L’amore impetuoso che lo aveva mosso in precedenza si trasformò in una grigia consuetudine. L’agiatezza agreste che aveva contribuito a formarne l’audacia poetica si sgretolò una volta constatato che, in sua assenza, quei terreni erano stati condotti alla rovina. Emblema della sua condizione emotiva sono i componimenti scritti nel 1693, all’indomani del devastante terremoto che mise in ginocchio il Val di Noto: un concentrato di terrore e senso dell’effimero. Da cui emergono gli ultimi guizzi di spirito battagliero, rivolti ai meschini avvoltoi che approfittarono di quella disgrazia per arricchirsi con gli appalti delle ricostruzioni.
La morte lo raggiunse, nella sua Mineo, nel 1711. E a lungo, con essa, un inopportuno silenzio. Furono altri intellettuali siciliani, come Capuana e Bonaviri, a tramandarne gli scritti e a rinfocolare il dibattito sul poeta-guerriero. Riconosciuto oggi, a gran voce, come uno dei padri della poesia dialettale. Di un cavaliere si potrà anche ostracizzare il nome. Ma non la memoria delle sue gesta. Proprio come accade nella magia di una fiaba o di un romanzo.