Una Sicilia senza sole. Sembra quasi un’utopia, un rovesciamento dell’ordine naturale. Un ossimoro irrealizzabile ed astratto. Non è forse vero che, nella narrazione che i siciliani offrono della propria terra agli stranieri, in cime alle virtù da elencare svetta spesso la sua luce calda e accogliente? La sua vitalità talvolta soffusa, altre volte ardente come la canicola? Persino la pittura ha fotografato questo convincimento con enorme frequenza, districandosi tra i toni caldi di terreni bruciati e spiagge consumate dall’aridità di un mare ritroso. Una tendenza, questa, che naturalmente ha raggiunto il suo culmine con i grandi paesaggisti siciliani dell’800, affascinati a tal punto dalla luce, e dai suoi riverberi, da farne la propria cifra stilistica, il biglietto da visita di un’identità inconfondibile. È probabile che risalga esattamente a quel momento storico l’affermazione di un detto comune che ancora ci accompagna, che fa quasi fatica ad immaginare la bellezza della Sicilia senza quest’aura di paradisiaco splendore. Ma cosa accadrebbe se provassimo, per una volta, a ribaltare diametralmente la prospettiva? Che isola ci troveremmo davanti agli occhi se privilegiassimo il silenzio poetico del grigiore? Ci imbatteremmo, verosimilmente, nelle opere uniche di Michele Catti, il “paesaggista ribelle” che non amava le imposizioni e le omologazioni e che con il suo sguardo seppe restituire un’immagine inedita e profonda del nostro vivere. Quella dell’artista palermitano, infatti, non fu appena la predilezione per un insolito genere di soggetti – scorci urbani plumbei e solitari – quanto, piuttosto, il trionfo dell’intimità, la raffinatezza tecnica e immaginifica di uno spirito inquieto e sfaccettato, gravato dal peso di un talento che andava di pari passo con la sua malinconia.

Nei dipinti di Catti, i volti non possono
e non devono essere riconoscibili.
Sono fuori dal tempo e universali.

Nonostante il riconoscimento che gli ambienti intellettuali della sua città gli riconobbero presto, Catti sentiva continuamente l’impulso di proseguire in solitudine lungo la sua strada. La sua estrema affabilità – raccontano le cronache del tempo, cozzava quasi inspiegabilmente con il crepuscolarismo della sua anima, che spesso lo incatenava al bancone di una bettola o la trascinava meccanicamente in giro per le vie di Palermo. Non fu mai troppo accomodante quando si trattava della sua arte: non lo fu di certo in giovinezza, quando abbandonò lo studio di un’auctoritas come Francesco Lojacono perché mal digeriva gli esercizi nel disegno che l’apprendistato comportava. Né lo fu quando si trattò di importare in Italia – in Francia l’Impressionismo ne aveva già tratto abbondantemente ispirazione – il gusto per l’arte giapponese, specialmente per la visione calma ma totalizzante che quest’ultima aveva saputo dare della natura. Né, tantomeno, si lasciò influenzare dalle mode del suo tempo quando decise di affermare con le sue pennellate il gusto per il plumbeo, per la dolce ma inesorabile decadenza autunnale, per l’osservazione smarginata di ciò che veniva investito dallo scrosciare della pioggia. Non è soltanto il sole a mancare nei dipinti di Catti: è pure quella sensazione di realismo fittizio e statico. In opere come Viale della Libertà (1895), Ultime foglie (1906) o Porta Nuova (1908) è palpabile, tangibile il senso di sospensione, di metamorfosi che ammanta le scene. Pur nell’assenza di colori sgargianti, quell’atmosfera verace, affievolita dal peso di chissà quale fardello esistenziale dei passanti, ogni elemento urbanistico e architettonico della composizione è esaltato, imponente. Sono i volti, invece, a confondersi con l’umida patina di condensa che sembra frapporsi come unica barriera tra noi e quei figuranti. Perché il volto, quando è possibile scorgerlo, deve non essere riconoscibile. In quelle figure intente a passeggiare o a sfuggire dal maltempo, c’è una Sicilia di stampo universale, il ripetersi di consuetudini e sentimenti, il commovente sfiorire della natura che sacrifica qualcosa per andare avanti. Lo sfocare di un ricordo che si aggrappa alle nuvole cariche di acqua.

Persino Ignazio Florio si innamorò delle sue opere. Nel 1914 invitò la Civica Galleria ad acquistare proprio Ultime foglie. Di lì a poco, Catti morì. Meno celebre di quanto il suo talento avrebbe meritato. Ma orgogliosamente artefice di un’arte inimitabile. Un’arte che odora di pioggia come i sogni più nascosti.

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