L’autrice siciliana, ospite del recente “Etnabook”, ha raccontato di persona cosa ha ispirato il suo ultimo romanzo È da lì che viene la luce. Un testo che fa riflettere sull’attualità di certi temi dati per scontati: «Volevo scrivere un libro sulla necessità di imparare a convivere in maniera pacifica con la diversità»

Vulcanica, senza peli sulla lingua, autoironica: è per questi tratti che si riconosce e si fa amare Emanuela Abbadessa. La scrittrice e giornalista originaria del capoluogo etneo è stata invitata, in occasione del recente Etnabook, presso la Legatoria Prampolini per parlare del suo ultimo romanzo edito da Piemme, È da lì che viene la luce, e ha raccontato tanto la genesi dell’opera quanto l’importanza che ha oggi discutere di fascismo e antifascismo.

UNA STORIA RIELABORATA MA VERA. Il protagonista della vicenda, per quanto la trama accolga una grande pluralità di personaggi, è Ludwig von Trier, un barone tedesco che nel 1932 vive in una villa di Taormina e fa della sua professione di “scrivere con la luce” un’occasione per conoscere meglio la gente del posto. «La sua storia è ispirata a quella del fotografo Wilhelm von Glöden, che visse davvero in Sicilia nei primi anni del Novecento, mentre il suo nome è un omaggio a Ludwig van Beethoven e a Ludovico II di Baviera (amante del bello per eccellenza). A differenza di von Trier, però – continua la Abbadessa – von Glöden ebbe nella regione un’esperienza meno travagliata e non subì le violenze fisiche e i malesseri interiori con cui fa i conti von Trier nell’opera, a causa della sua omosessualità. Se ho scelto di ispirarmi solo liberamente a questa figura storica è perché volevo scrivere un libro sulla necessità di imparare a convivere in maniera pacifica con la diversità, denunciando il fascismo in quanto regime incapace di accogliere, comprendere e rispettare qualsiasi tipo di minoranza, fosse essa etnica, religiosa, linguistica o di orientamento sessuale».

UN’ARDUA SELEZIONE DI NOMI PARLANTI. Oltre al barone, chi si addentra nella lettura conosce ben presto diversi abitanti della Taormina dell’epoca: da un lato c’è Sebastiano Caruso, che come anticipa il suo cognome è ancora un ragazzo, dall’indole curiosa e perspicace come pochi; dall’altro c’è Agata, la giovane modella che posa spesso per von Trier e il cui nome è diffuso nella Sicilia orientale per via del culto di Sant’Agata, patrona di Catania e in associazione alla bellezza femminile nella prima età adulta. Una storia a parte ha poi la genesi di Elena Amato, saggia e acculturata governante di von Trier, che prova nei suoi confronti un sincero accoramento. «Prima l’avevo chiamata Elena Greco, senza accorgermi dell’omonimia con la protagonista de L’amica geniale della Ferrante, dopodiché ho pensato a Elena Rizzo, che non mi convinceva per via del suono aspro del cognome. Alla fine, a poche ore dal visto si stampi, Elena Amato mi ha folgorata e convinta più di qualsiasi altra variante».

DA DOVE VIENE LA LUCE? Per il titolo della pubblicazione, invece, l’autrice si è ispirata a un verso del celebre brano Anthem di Leonard Cohen, che recita: «There’s a crack in everything, that’s how the light gets in», ovvero «C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che viene la luce». Come evidenzia la Abbadessa, «la frase descrive bene le diverse personalità del romanzo, dal momento che nessuna di loro è esente da una “crepa”. Perfino il più feroce dei personaggi, uno squadrista senza scrupoli, ha infatti occasione di dimostrare un briciolo di umanità in corso d’opera, nello stesso modo in cui la più pacifica delle donne non è esente da una qualche ombra privata. In ogni caso, la luce da cui sono attraversati non sempre è in grado di salvarli, anche perché “dove c’è più luce le tenebre sono più fitte”, come rammenta Goethe; più semplicemente, la sua presenza permette a ogni essere umano, tanto nella finzione letteraria quanto nella realtà, di confrontarsi con un profondo dualismo esistenziale dal quale nessuno può sottrarsi».

FASCISMO SULLO SFONDO E ANTIFASCISMO IN PRIMO PIANO. A rendere particolarmente affascinante l’esperimento narrativo della scrittrice è la sua capacità di mantenere ai margini dell’intreccio il fascismo inteso come fenomeno storico e politico: pochissime sono le pagine in cui appare un riferimento esplicito a ciò che stava accadendo in Italia negli anni Trenta, né gli eventi principali sono intervallati da descrizioni patetiche. Più che come un romanzo storico, d’altronde, secondo la Abbadessa si potrebbe descrivere come un’opera antifascista, che non a caso l’ha portata a vincere il Premio Etnabook per la profondità e l’accuratezza con le quali ha delineato non un regime totalitario in sé e per sé, bensì l’atmosfera che si respirava in quel periodo e la mentalità che rischiava di diffondersi trasversalmente tra la popolazione italiana durante il Ventennio. «Sfortunatamente si tratta di un tema ancora attuale – conclude l’autrice siciliana –, che potrà considerarsi fuori moda solo quando svilupperemo la giusta intolleranza al razzismo in senso lato e ci schiereremo contro la discriminazione e la repressione in ogni loro manifestazione su scala mondiale».

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