Farhad Bitani: «Per salvare l’Afghanistan non esodi, ma dialogo, istruzione e diritti»
Il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan e la sua riconquista da parte dei Talebani ha suscitato molte reazioni. Degno di nota è il punto di vista di Farhad Bitani, scrittore afghano che ha vissuto sulla propria pelle gli orrori della guerra, prima attivamente da soldato musulmano integralista e poi da rifugiato politico. «L’America – denuncia – non conosceva veramente il mondo afghano: quando nel 2001 ha iniziato la guerra in nome della democrazia in verità celava interessi più grandi: imporre la sua presenza in un territorio soggetto all’influenza economica di Cina e Russia e tenere sotto controllo il minaccioso Iran». Da anni residente in Italia, Bitani ha raccontato la sua vita in “L’ultimo lenzuolo bianco”, testimonianza autobiografica edita da Neri Pozza nel 2014, e rivista in una seconda edizione per lo stesso editore nel 2020. L’autore sarà ospite del webinar “Vent’anni dopo”, promosso dal Centro Culturale di Catania e dall’Istituto Francesco Ventorino di Catania, previsto per il prossimo 30 settembre alle ore 20.30.
La redenzione. Figlio di un soldato che combatté contro l’Unione Sovietica tra il 1979 e il 1989, Farhad Bitani ha conosciuto sin da piccolo gli orrori della guerra e lui stesso ha impugnato le armi. Il clima di fondamentalismo imperante a Kabul negli anni della sua adolescenza lo ha influenzato: Bitani è stato un estremista musulmano, è stato un soldato corrotto. In una città in cui non si va allo stadio per una partita, ma per assistere alla lapidazione di un’adultera, la cattiveria fa parte della vita di tutti i giorni. La via della redenzione però è aperta a tutti: Farhad oggi non è più l’integralista che sognava di uccidere i cristiani, è il socio fondatore del Global Afghan Forum, un’organizzazione di giovani afghani residenti in tutto il mondo che si impegnano per la costruzione di una comunità umana più educata e giusta.
Da integralista a testimone. Il congedo dalle armi è avvenuto nel 2011, a seguito di un attentato subìto durante un periodo di licenza militare in Afghanistan. Da quel giorno su Bitani pendono una condanna a morte da parte dei Talebani e l’impossibilità di rientrare nella sua terra. «Ho avuto la fortuna di arrivare a Roma con un aereo privato, dato che mio padre era addetto militare all’ambasciata afghana in Italia, e ho ottenuto qui asilo» racconta. «Pur essendo un privilegiato – continua lo scrittore – non è stato facile ambientarmi: ho dovuto imparare a convivere con una cultura diversa dalla mia, a dialogare con l’estraneo». Da musulmano fortemente religioso ed ex integralista, il processo di inserimento in Italia per Farhad ha avuto delle conseguenze importanti: «Ho compiuto un percorso culturale ed educativo che mi ha permesso di capire che siamo tutti umani, che il cuore conta più della religione. Così ho fatto la scelta di deporre le armi e impugnare la penna».
I veri interessi americani. Bitani, che ha iniziato a scrivere per testimoniare gli orrori delle guerre vissute e denunciare quelli delle lotte attuali, già nel 2014 si dichiarava molto critico nei confronti dell’interventismo dell’Occidente. D’altra parte, nota lo stesso Bitani «l’Afghanistan non è in guerra dal 2001, ma dal 1979, quando ha iniziato a lottare contro l’Unione Sovietica. In quei 20 anni sono morte più di due milioni di persone, ma nessuno le ha mai considerate prima che entrassero in gioco gli Americani». Una ipocrisia latente, che a suo dire è testimoniata anche dallo squilibrio nell’utilizzo dei fondi destinati al suo Paese: «Il 95% dei soldi occidentali in questa presunta guerra per la democrazia è stato investito in armi e caserme piene di soldati corrotti, solo il 5% nell’istruzione. Per promuovere un nuovo stile di vita, non bisognerebbe prima di tutto educare?».
Tutelare chi rischia di più. Nella situazione attuale, con l’Afghanistan caduto di nuovo nelle mani dei Talebani, sarebbe necessario puntare proprio al dialogo e all’educazione: «Anche i Talebani sono fratelli. Più che intraprendere un’altra lotta, sarebbe meglio instaurare con loro un dialogo chiamando in gioco il Pakistan, la Cina e il Qatar. Se questi tre paesi riuscissero a trovare un compromesso con i Talebani facendo leva su interessi economici, si eviterebbe forse un regime del terrore». Un dialogo possibile che però non può ignorare il concreto pericolo di rappresaglie a cui sono sottoposti molti suoi connazionali: «I corridoi umanitari rischiano di essere discriminanti: si dà priorità a chi ha collaborato con gli Europei e si abbandona la povera gente. Sarebbe giusto – spiega Farhad – accogliere solo i soggetti a rischio, come mia sorella e le altre donne che hanno lottato per ottenere i diritti civili in territorio islamico e ora sono minacciate dai Talebani». E anche a proposito della questione femminile Bitani è molto critico verso rispetto a quanto accaduto negli ultimi vent’anni: «Gli americani hanno costruito una facciata per pulirsi la coscienza, proprio come stanno facendo ora con i corridoi umanitari. In questi anni le donne in parlamento sono state solo tre e nessuna di queste in ruoli di primo piano. Inoltre, soltanto l’1% delle borse di studio occidentali elargite nel tempo è stato dato a donne».
Garanzie impossibili. E se ancora per molti afghani rimasti in patria la situazione rimane critica, anche per coloro i quali le porte dell’accoglienza si sono aperte il cammino appare tutt’altro che facile, anche in Italia: «Il vostro è un paese bellissimo, ma non può offrire vita dignitosa alle migliaia di afghani che stanno fuggendo. Per una buona integrazione – conclude – sono necessari lavoro, moschee, interpreti. A Torino, ad esempio, la nuova comunità afghana di mille persone ne è ancora sprovvista. Se queste persone vengono abbandonate, rischiano di diventare un pericolo per sé stessi e per gli altri».