«Non basta l’intervento dello Stato o una maggiore spesa pubblica per ridurre le differenze tra Nord e Sud, occorre piuttosto che si creino le condizioni per promuovere l’attività imprenditoriale perché alla fine a decretare la crescita di un paese sono sempre le aziende». Per colmare il gap che da sempre esiste fra i diversi territori della Penisola, Ferruccio De Bortoli, editorialista del Corriere della sera del quale è stato per due volte direttore ospite del 3° workshop internazionale “Il giornalismo che verrà, promosso dal Sicilian Post, è convinto che si debba puntare su nuove opportunità di sviluppo che facciano da traino a un’economia da troppo tempo stagnante. Com’è noto, il tessuto industriale da sempre si concentra nell’Italia Settentrionale; stando ai dati Istat del 2020, la produzione al Nord è stata del 63,1% mentre al Sud è calata di tre punti percentuali, collocandosi al 16,4%. Una cesura netta, acuita dalla recente emergenza sanitaria che si può superare solo attraverso l’imprenditoria giovanile e lo sviluppo tecnologico. «L’apertura della rete – aggiunge De Bortoli – ha reso possibile l’accesso di tante piccole imprese e di tanti produttori nei mercati internazionali. A questo punto occorre fare un ulteriore balzo in avanti che liberi le risorse specifiche di ciascun territorio, lasciando alle nuove generazioni lo spazio necessario per creare le giuste opportunità di crescita».

CI SALVEREMO? Ora che il peggio della pandemia sembra alle spalle, ci si chiede sempre più frequentemente: ci salveremo? Non è facile rispondere al quesito, di certo la prospettiva di nuovi investimenti futuri, legati anche all’attuazione del Recovery Plan, lascia ben sperare. «Credo che il capitale sociale – evidenzia il presidente di Longanesi e della Vidas Milano – possa essere un’utile base per la ripartenza, tenendo conto che c’è un cambio di paradigma dell’economia e della società che presuppone una maggiore condivisione e il raggiungimento di obiettivi d’inclusione oltre che di transizione energetica e digitale, in una visione complessiva in cui le imprese, le famiglie e lo Stato operino in accordo con le comunità». L’associazionismo, sia di natura privata, cattolica, laica o non confessionale, va a costituire una rete a maglie strette che per la prima volta sposta l’attenzione dalla sfera strettamente politica ed economica a quello umana. «Durante la pandemia, abbiamo visto che il nostro Paese ha reagito meglio di altri – risponde De Bortoli a una delle tante sollecitazioni del direttore del Sicilian Post, Giorgio Romeo, che ha moderato l’incontro – il che vuol dire che siamo stati più disciplinati di quanto non pensassimo. In particolare, le comunità locali hanno trovato la forza di reagire sostenendo i più deboli quindi gli anziani, per lo più confinati in Rsa; le famiglie più povere, che in alcuni casi sono anche le più numerose o quelle immigrate, spesso poste ai margini della società».

Un momento del panel

CHI HA DI PIÙ, DIA DI PIÙ. Pochi giorni fa l’Istituto di Statistica ha pubblicato un report contenente i tassi di povertà assoluta delle famiglie italiane rispetto allo scorso anno, nel quale si rileva un inevitabile trend negativo rispetto al 2019, che fa così registrare il livello più alto in assoluto dal 2005. Questo significa che due milioni di famiglie e oltre 5,6 milioni d’individui sono in stato d’indigenza soprattutto al Mezzogiorno, dove raggiungono il 9,4%, sebbene la forbice si sia allargata anche al Nord, che passa dal 5,8% al 7,6%. Ecco allora che la rete assistenziale costituita dal Terzo settore rappresenta un grande paracadute sociale in grado di attutire le differenze. «Questo tipo di volontariato – osserva ancora l’ex direttore de Il Sole 24 Ore – rappresenta per gli italiani la forma più alta di senso civico. A questo punto si tratta di non deluderlo o ammaliarlo con promesse che la politica non può mantenere, di non cercare di corromperlo magari indicandogli dei bersagli come accade nei populismi e nei nazionalismi. In questo cambio di rotta economica all’Italia dunque si chiede di essere un attore responsabile di primo piano e non semplicemente un seguace».

NON È UN PAESE PER GIOVANI. Da qualche decennio, le generazioni più giovani sono costrette a emigrare all’estero per trovare quella stabilità e dignità lavorativa che in Italia manca. Nel solo 2019 a lasciare il nostro Paese sono stati quasi 180mila, con un aumento del 14,4% rispetto al 2018. Si tratta di over 25, laureati, che nel 41% dei casi si spostano dal Sud al Centro-nord. «Dirò una cosa politicamente scorretta ma della quale sono convinto: la situazione sarebbe diversa se ci fosse stata una qualche forma di protesta organizzata da parte dei più giovani. Invece la contestazione è avvenuta andandosene. Se i laureati che hanno lasciato il nostro paese fossero partiti tutti insieme, per andare verso nazioni in cui il merito e la voglia di fare sono riconosciuti, probabilmente parleremmo oggi di un paese che si sta estinguendo e non di una nazione minacciata dall’immigrazione. Perdendo 300 mila persone l’anno e avendo un tasso di natalità dell’1,3%, stiamo caricando sulle spalle delle prossime generazioni non solo il peso dei debiti, che stiamo contraendo con facilità, ma anche la responsabilità di doversi occupare in futuro di un alto numero di anziani non autosufficienti». E allora in un paese pieno di risorse inespresse e vecchi difetti come gli sprechi, il lavoro nero, l’evasione fiscale, la scarsa responsabilità verso i meno abbienti, cosa si può fare? «Gli imprenditori si lamentano della scarsa aderenza a una cultura d’impresa, quando poi puntano al precariato e al basso costo del lavoro. Io credo che il migliore investimento che si possa fare nei confronti dei più giovani sia la fiducia, la quale trasmette un senso di appartenenza alla comunità. In questo modo non ti corrispondo solo una retribuzione per il tuo lavoro ma condivido con te un progetto caricandolo della responsabilità di portarlo avanti come parte attiva del processo».

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