Di giorno insegna educazione musicale a scuola. Nel pomeriggio fa il papà a tempo pieno, dedicandosi alla figlia Giulia di 8 anni. La sera scrive, compone, medita alla chitarra suonando Bach a ritmo lento. Di notte, in pigiama, chatta con i suoi amici musicisti d’oltre Oceano. Per Francesco Cataldo Siracusa è come New York, la città che non dorme mai. Fra i tramonti ed il mare di Ortigia il chitarrista e pianista ha adattato il suo sogno americano, inseguito da ragazzo ascoltando Pat Metheny e Jim Hall.

Per realizzare quel sogno a stelle e strisce Francesco Cataldo ha messo da parte una laurea in Giurisprudenza, intraprendendo una carriera nel mondo del jazz siciliano piena di incertezze. Per uscire dal limbo, nel maggio 2012 decise di rompere gli indugi e di mettersi alla prova. O la va o la spacca. Invia così una mail al contrabbassista Scott Colley, con allegata una traccia del concerto che aveva tenuto a Palermo per il Brass Group. «Conoscevo Colley attraverso i dischi di Metheny», racconta il musicista aretuseo. «Ero stato colpito dal suo suono asciutto, lapidario: ogni nota sembrava una pietra. Un seguace di Charlie Haden. Tira fuori i muscoli, ma riesce ad essere anche poetico».

Passa soltanto un mese e, incredulo, il chitarrista siciliano trova nella posta elettronica la risposta di Colley: «Diceva: “Beautiful music, vieni qua e portati Salvatore Bonafede”, che lui conosceva già», riprende Cataldo. «Scott ha poi messo su la squadra ed ha scelto gli studi: “Sei il terzo musicista italiano col quale registro: Stefano Bollani, Enrico Pieranunzi e il terzo sei tu”, mi disse. Piccole soddisfazioni che ti rimangono».

Nel settembre 2012 varca la soglia dei leggendari Sear Sound Studios a Manhattan dove, insieme a Scott Colley, registra “Spaces”

All’inizio, tra i grattacieli di New York ed i “mostri” del jazz, fu il panico per un musicista che arrivava dall’“isolamento” della Sicilia. «La “Grande Mela” viaggia a ritmo frenetico», ricorda sorridendo Cataldo. «Da un’oasi lenta con i suoi pro e contro ti ritrovi fra gente che corre. Per fortuna ho trovato musicisti che mi hanno messo subito a mio agio, facendomi superare il traumatico impatto iniziale».

Nel settembre 2012 il chitarrista siracusano varca la soglia dei leggendari Sear Sound Studios a Manhattan, dove sono passate tutte le star del pop e del jazz, e, insieme con Dave Binney, Salvatore Bonafede, Clarence Penn, Erik Friedlander e, naturalmente, Scott Colley, registra Spaces. Un album con le radici piantate nel mainstream, che diventa una sorta di spazio sonoro nel quale Francesco Cataldo si muove libero e leggero, come un astronauta che fluttua nell’assenza di gravità. «Prima che musicale, il titolo è legato a una scelta psicologica, interiore. Rappresenta una urgenza», tiene a precisare l’artista siciliano.

Spaces è un disco americano, ma con molti richiami alla propria identità culturale: Siracusa, Ortigia, Sunrise in Rome, Perugia sono alcuni dei titoli. «Ho voluto unire i muscoli a stelle e strisce alla poesia di Siracusa, a quello che sono io. Bonafede mi fece i complimenti: “Hai portato l’America nel mondo lento, flemmatico, malinconico della sicilitudine. Hai dato leggerezza a un elefante e lo hai fatto ballare”, mi disse».

Cataldo, secondo da sinistra, con Marc Copland (pianoforte), Pietro Leveratto (contrabbasso) e Adam Nussbaum (batteria)

Spaces uscì nel 2013, l’anno in cui nacque Giulia, la figlia di Francesco. Che avrà un ruolo importante nell’evoluzione musicale del papà. «È come se fosse caduto un meteorite, lei è diventata la mia piccola Buddha, la mia maestra. Grazie a lei ho riscoperto il valore delle piccole cose e ho capito la strada da seguire. Che è quella della semplicità, del minimalismo. Contemporaneamente ho riscoperto Pascoli e il suo fanciullino. Tutta la vita è una ricerca per questo “bambino” dentro di noi e in musica significa semplicità, lirismo… Questa è la mia piccola idea».

In “Giulia”, Cataldo si allontana dal jazz per creare una musica evocativa e cinematografica

Alla figlia è dedicato l’album “italiano”, Giulia, in cui la bambina appare raffigurata in copertina, di fronte al mare nel Castello Maniace di Siracusa. Nel disco, uscito lo scorso anno, un mese prima del lockdown, e registrato con Marc Copland (pianoforte), Pietro Leveratto (contrabbasso) e Adam Nussbaum (batteria), Cataldo si allontana dal jazz, per creare una musica minimalista, evocativa, cinematografica. «Brani belli, come una carezza infinita destinata a perdurare per un lungo viaggio», scrive Pupi Avati, regista appassionato di jazz, uno dei primi ad essere incantato dal disco.

«Io sono ossessionato dalle immagini», spiega Cataldo. «Devo avere una immagine davanti quando compongo: mia figlia per Giulia, il Castello Maniace per Levante, mia moglie per Waltz for Two. O dedico un brano a una persona o a un paesaggio. La mia musica, i miei brani, pur essendo strumentali e quindi privi (almeno per ora) di testi, sono stati spesso definiti dalla stampa internazionale “canzoni” perché trasmettono emozioni, evocano immagini».

Nell’album Giulia, l’elettrico lascia il posto all’acustica, gli arrangiamenti vengono scarnificati, semplificati, e Francesco Cataldo torna a quel piano con il quale a 6/7 anni fece i primi passi nel mondo della musica. «Ho seguito un percorso classico fino a 13 anni, poi sono passato alla chitarra. Il piano l’ho ripreso da autodidatta a 30 anni. È stato Adam Nussbaum a stimolarmi. Vedendomi provare al piano uno dei brani che avremmo dovuto registrare, mi abbracciò dicendomi: “Sentendo suonare te ho capito lo spirito delle tue composizioni”».

Da qui nasce la prossima sfida di Francesco Cataldo. Quella di sedersi da solo davanti a una tastiera di tasti bianchi e neri per raccontare “short stories”. «Una esposizione di temi, senza improvvisazioni. Perché l’era dell’improvvisazione è finita».

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