Esistono due modi per manifestare il proprio amore verso la Sicilia. Il primo, probabilmente, è quello più ortodosso e consiste nel difenderla a spada tratta dagli attacchi dei detrattori, nel ribattere con incrollabile convinzione a chi si ostina a vedere in lei soltanto delle brutture, nell’affermare con orgoglio l’unicità del popolo che la abita. Il secondo, invece, ha un po’ le stimmate dell’amore ferito, tradito, disilluso, che ti spinge ad appellarti all’oggetto del tuo sentimento con il rimpianto di ciò che non è stato, a metterne in evidenza i difetti e le contraddizioni con il nobile intento di porvi rimedio, a denunciarne con coraggio le secolari storture che ne frenano lo sviluppo. Due anime di segno quasi opposto, difficilmente armonizzabili e portate istintivamente a fraintendersi, quando non addirittura a guardarsi in cagnesco. Ne sa qualcosa Leonardo Sciascia, che a causa dei suoi strali contro le connivenze di ambiente mafioso – e di quelli contro l’antimafia di facciata – ha attirato su di sé critiche e feroci avversioni. Ne sa qualcosa un altro fine intellettuale nostrano, certamente meno noto al grande pubblico ma ugualmente rappresentativo di quella poetica “gattopardesca” che tanto facilmente si presta a fraintendimenti di ogni sorta. Il suo nome era Sebastiano Aglianò e le sue vicende poetico-esistenziali si svolsero alla luce di un dibattito che, ancora oggi, attraversa la nostra terra.

Fu proprio Sciascia – che in qualche maniera ne percepiva un’affinità elettiva – a sintetizzare magistralmente il contenuto dell’opera che ha reso celebre Aglianò: «È una Sicilia che sembra scomparsa. Scomparsa sotto le antenne televisive, le automobili, il parossistico consumismo, la fuga dalle campagne, il disarmo delle zolfare. Sembra. Ma non è». Il riferimento dello scrittore di Racalmuto è a Che cos’è questa Sicilia?, saggio che Aglianò diede alle stampe nel 1945 e che fu riedito nel 1950 da Mondadori e nel 1996 da Sellerio. Un’indagine storica e soprattutto antropologica e psicologica, quella che il siracusano affidò a pagine cariche di tensione e di provocazioni, dalle quali emergeva il suo rammarico per le ataviche criticità che da sempre stringono l’isola in una morsa così stretta da vanificarne il potenziale: clientelismo, meccanismi di sopraffazione di stampo feudale, cronica sfiducia nell’idea di progresso. Sono solo alcune delle rimostranze di Aglianò, alle quali lo scrittore era solito aggiungere una massima – ancora una volta – di carattere sciasciano: «La Sicilia accoglie e riassume in sé le caratteristiche che sono proprie di tutto il Paese, accentuandole e colorendole». Basterebbe questa specificazione a sollevare Aglianò da ogni accusa di campanilismo rovesciato, per intravedere tra le crepe di un quadro sicuramente non roseo tutto il bene che la nostra terra sa maternamente cullare. Eppure, non fu abbastanza. Forse perché le opere scritte con passione e foga, come quel libretto, non si prestano alla mediazione delle mezze misure. Forse, ancora, perché Aglianò lo concepì nell’immediatezza del secondo dopoguerra, ovvero in uno dei periodi maggiormente dilaniati dalle correnti separatiste e meridionaliste che, ciecamente, desideravano affermare le virtù del popolo isolano non soltanto sul piano culturale, ma anche su quello strettamente politico. «Signor Aglianò, – si lesse qualche tempo dopo dalle pagine dei giornali – se ne vada: ci tolga l’incomodo della sua indesiderabile presenza e faccia presto, perché non tutti i siciliani sanno sopportare a lungo, e non si può indeterminatamente ignorare un comportamento denigratorio come il suo». Una lettera di avvertimento in piena regola. Che, purtroppo, sortì i suoi effetti. Aglianò, infatti, terminò i suoi giorni a Siena nel 1982, riconosciuto a livello nazionale come rilevantissimo critico letterario e docente. In Sicilia, di contro, se ne persero praticamente le tracce.

Un paradosso ancora oggi inspiegabile. Specie guardando con attenzione a quel volumetto della discordia, che accanto ai rimproveri ospitava descrizioni incantate e scorci commoventi. Come questo: «Anche nelle zone più sconsolate batte un sole che riempie tutto di sé e trasumana le cose: ciò che altrove sarebbe indifferente, qui è divino perché viene investito in pieno da una luce solidale, chiarificatrice di ogni minima struttura». Fa riflettere amaramente la considerazione che Aglianò si specializzò come studioso di Dante Alighieri e Ugo Foscolo: due esuli per eccellenza, forzosamente cacciati dalla loro terra. Fu questo il destino che colpì il nostro autore. Capito da pochi e odiato da molti.

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