Un magnete pronto a risucchiarci inconsapevolmente ogni volta che ci allontaniamo un po’ troppo, ogni volta che la perdiamo di vista nella caccia ai nostri sogni, ogni volta che i suoi sapori si affievoliscono al nostro palato. Così, sulla scorta di quanto scrisse una volta lo scrittore siciliano Giuseppe Antonio Borgese, verrebbe da definire la nostra isola. Un vortice di emozioni contrastanti la circonda: il desiderio di lasciarla al suo destino, sofferente e incapace di garantirci un futuro, si scontra con l’impossibilità di ignorare l’amore reciproco che ci lega ai suoi luoghi del cuore. Sintetizzato dalle parole di Borghese, il sentimento del nec tecum nec sine te vivere possum, ovvero non posso né vivere con te né stare senza te. Sebbene tale discorso possa essere valido per chiunque sia costretto ad abbandonare i propri luoghi natii, per il siciliano le conseguenze di una tale decisione risultano più amplificate del normale. Ma perché? Perché anche quando il cambiamento radicale porta con sé un miglioramento delle proprie condizioni di vita, non è possibile eliminare il rimorso di ciò che si è lasciato dietro?

Forse, semplicemente, si tratta di una questione di indole naturale, radicata nei nostri geni e trasmessaci dalla geografia stessa della Sicilia, un’isola non troppo isola: solo un minuscolo braccio di mare ci separa dal resto del continente, eppure ci sentiamo estremamente distanti; una distanza più ragguardevole si interpone tra noi e l’Africa, eppure la percepiamo così vicina, nel bene e nel male, da considerarla quasi una parente. Isolati dal mare ma affacciati sul mondo: questa è la condanna dei siciliani, vogliosi di scoprire cosa sta dall’altra parte e spaventati all’idea di lasciare ciò che è conosciuto. E come l’Italia, per riprendere ancora Borghese, necessita della Sicilia per sentirsi più completa e più ricca, così il siciliano, a qualsiasi latitudine, sa di dover tornare nel suo quasi-isolamento primitivo per ritrovare la completezza perduta.

Giuseppe Antonio Borgese
Giuseppe Antonio Borgese

È questa dinamica, in fondo, a rappresentare il marchio di fabbrica di un abitante isolano: fuggitivo, nomade e sostenitore della libertà di scegliere ma bisognoso di un rifugio sedentario in cui tornare e chiamare casa. Un endemico vedersi come cittadino del mondo contro l’orgoglio di un’appartenenza forse in contraddizione. O piuttosto, un meccanismo indispensabile per ripristinare il nostro equilibrio interno, il nostro baricentro che, per funzionare, ha bisogno di stare, appunto, in posizione centrale, dove è possibile voltarsi e scorgere entrambe le realtà.

Nel 1982, la band inglese The Clash cantava “Should I stay or should I go?”, cioè “andare o rimanere”? Il segreto dei siciliani è la capacità di non dover prendere in maniera permanente né l’una né l’altra via: anche quando si lasciano i suoi confini, la Sicilia trattiene un pezzo di noi come pegno per averla abbandonata e come Orfeo, sempre alla ricerca della sua Euridice, il siciliano continuerà a vagare incessantemente fino al momento, per quanto effimero, in cui vi si potrà ricongiungere. Fuga e ritorno, dunque: le facce di una stessa medaglia che rendono il siciliano ciò che è.

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