«Nessuno nasce a Lampedusa da quando negli anni Settanta è stato tolto il punto nascite». Militante politico, agitatore culturale e artista poliedrico, Giacomo Sferlazzo ha visto la luce per la prima volta ad Anzio, provincia di Roma, nel 1980. Per caso. «Lì si era stabilito mio nonno, comandante di barche che viaggiavano nel mondo e quindi era un punto di riferimento per la mia famiglia. Così quando mia madre era vicina al parto, mio padre la portò ad Anzio».

A Roma, come a Palermo e Milano, Giacomo passerà nel periodo degli studi e poi del “nomadismo”, ma il richiamo delle radici lo riporterà al “lago di pietra” in mezzo al Mediterraneo, linea di confine fra l’Europa e l’Africa. Qui il “barbudo”, per la folta e scura barba che gli dà l’aspetto da rivoluzionario cubano, da vent’anni conduce una crociata culturale. Quando lo raggiungo al telefonino è appena tornato da PortoM, una sorta di piccolo Beaubourg, un centro culturale tirato su con le proprie mani per preservare il passato e il presente di Lampedusa e piantare i semi del futuro. Contiene un museo degli oggetti smarriti dei migranti, un teatro, spazi per dibattiti. «Adesso stiamo ultimando il teatro dei pupi», racconta Sferlazzo. «Abbiamo recuperato gli attrezzi dell’ultimo puparo dell’isola. Lo spettacolo d’addio risale al 2005: lo portò in piazza, perché il teatro era stato costretto a chiudere». È un altro tassello importante nel tentativo di ricomporre il puzzle dell’identità perduta. «Il PortoM è in parte uno stabile ed è anche una grotta naturale. È un centro culturale e politico. Perché affrontiamo anche questioni politiche, o inerenti all’emigrazione, all’ambiente, alla mancanza di un ospedale. È un luogo con diverse anime. È, soprattutto, espressione del bisogno di collettività, di creare comunità».

Dapprima insieme con il collettivo Askavusa, esperienza chiusa un paio di anni fa, adesso alla guida dell’associazione culturale “I figli di Abele”, Giacomo è una sorta di Che Guevara lampedusano. «Sono comunista!», si dichiara con orgoglio. «Non sono di Sinistra, dalla quale mi sono allontanato da tempo. La Sinistra è responsabile della distruzione di tutte le conquiste fatte dai lavoratori e delle leggi immorali sull’immigrazione, come quelle che portano le firme di Martelli e di Turco-Napolitano, inasprite poi dalla Bossi-Fini».

Il cartellone della Leggenda di Andrea Anfossi contenuto in Marinmenzu

Un «comunista curioso e non dogmatico», un rivoluzionario che al fucile antepone la poesia e la musica. Come quelle composte per l’ambizioso progetto Marinmenzu: un libro in 200 copie numerate, realizzate dal laboratorio Edizioni Precarie di Palermo, contenente un album con quattro poemi musicali e tre canzoni, un libretto 20 x 20 cm, carte accuratamente selezionate, stampe originali, rilegatura a mano, un poster con il cartellone della Leggenda di Andrea Anfossi e tanti altri particolari che lo rendono una vera e propria opera d’arte. Un lavoro nel quale sono coinvolti il sassofonista jazz Daniele Sepe, Luca “Zulu” Persico dei 99 Posse, Jacopo Andreini (bouzouki, percussioni, sax), Marzouk Mejri (percussioni), Peppe Frana (‘ud, tar-hu, percussioni), Antonio Putzu (sciaramedda, clarinetto), Matteo Bennici (Violoncello), Piero Spitilli (Basso), Charles Ferris (tromba). «Avrebbe dovuto partecipare anche Alfio Antico, ma le restrizioni a causa della pandemia non hanno favorito l’incontro», rivela Sferlazzo.

Marinmenzu, che in lampedusano significa “mare in mezzo” o “mare immenso” e con questa espressione Sferlazzo si riferisce al Mediterraneo, lo spazio fisico, culturale e politico a cui appartiene e in cui si muove, è un’opera multimediale, composta di piccoli poemi nei quali confluiscono teatro, musica, cinema, letteratura. L’autore è, contemporaneamente, cantastorie, attore, poeta, cantante e musicista. Un Ignazio Buttitta tra i Last Poets, Ciccio Busacca che duetta con Anthony Joseph. Declama, canta, recita, suona. “Cunta” il passato in La leggenda di Andrea Anfossi, legata alla storia di Lampedusa. Denuncia il presente in Come un mare gravido di sogni, canzone nella quale offre un quadro sconcertante dell’isola, in cui il turismo sembra aver contribuito al decadimento piuttosto che allo sviluppo: «Troppe schedine, troppa cocaina, troppi soldi, troppi noleggi, troppe pizzerie, troppi alberghi… Un’isola violata nel profondo delle viscere», canta.

«Verso la metà degli anni Ottanta i missili lanciati da Gheddafi fecero conoscere al mondo quest’isola», spiega. «Il turismo di nicchia divenne di massa. Molti pescatori lasciarono le reti per aprire alberghi, pizzerie… L’ondata di turismo, senza una pianificazione, ha stravolto le menti, i costumi, gli stili di vita, ha cancellato una identità legata al mare. Il turismo, non lo nego, ha portato anche benessere economico, ma non culturale. Si assiste alla ricerca spasmodica del profitto».

E poi il dramma dell’emigrazione. Che divide l’Italia, come gli isolani. E che Giacomo Sferlazzo affronta facendo parlare i migranti in Give me the oil and take the slaves, brano composto attraverso gli audio-messaggi spediti al regista Michelangelo Severgnini da ragazze e ragazzi africani subsahariani prigionieri in Libia tra l’agosto 2018 e il febbraio 2020 per il progetto: Exodus – fuga dalla Libia. «Siamo rinchiusi qui nella prigione di Osama, Zawiyah, in Libia. Vogliamo tornare nel nostro Paese. Per favore, voi dovreste aiutarci, così possiamo tornare a casa. Qui stiamo soffrendo, qui stiamo morendo», è una delle tante testimonianze.

«Spesso sentiamo parlare dei migranti, ma quasi mai ascoltiamo il loro punto di vista, le loro rivendicazioni, le loro storie, in questo caso sono le loro voci a parlarci attraverso la musica», sostiene l’artista lampedusano. «Con Severgnini ci eravamo conosciuti quando mi aveva contattato sui migranti-braccianti in Italia. Aveva letto i miei articoli. Poi mi ha coinvolto nella colonna sonora del radio-documentario».

Un lavoro ambizioso, difficile, quello del Che Guevara di Lampedusa. Importante. Perché, contrariamente alla politica, affida alla cultura lo strumento di crescita per l’isola che non c’è. Perché riporta la sua terra al centro del palcoscenico, ritagliandole un ruolo da protagonista. «Qui non c’è stata mai una continuità nell’attività culturale. Abbiamo avuto una casetta del cinema, donata dalla Rai. Siamo stati, soprattutto, una colonia. Per la Rai, per la Biblioteca dei ragazzi di Bologna. Belle iniziative, senz’altro, ma che non hanno seminato nulla. Dopo il sindaco Fragapane, che aveva cercato di stimolare la vita culturale, siamo rimasti soltanto noi a operare, sostenendoci con i nostri risparmi o con raccolte di fondi. Eppure, anche qui ci sono molti talenti, nella musica, nelle arti plastiche».

Marinmenzu porta avanti anche questa esigenza. Stimolare un risveglio culturale, perché a Lampedusa possano tornare a rinascere speranze, sogni, vite.

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