«C’è l’omu dintra l’omu, e spissu è un gran gianfuttiri cui pari un galantomu»: scriveva così l’autore siciliano Nino Martoglio nella sua Centona, una raccolta di poesie in dialetto in siciliano. In italiano potremmo tradurre questa massima come C’è un altro uomo dentro ogni uomo, e spesso è un gran gianfòttere che sembra un galantuomo.

Se vi sembra tutto chiaro tranne il termine gianfòttere, sappiate che non siete soli: pur trattandosi di una parola che troviamo infatti nel dizionario italiano, si tratta in realtà di un regionalismo di origine proprio siciliana, che nella Trinacria in base alle zone può diventare gianfòttero, gianfòtteri o appunto gianfùtteri.

Come forse si può comunque dedurre dal contesto, il termine viene associato a una persona non propriamente affidabile, una che sull’isola definirebbero senza mezze misure un farabutto. E la sua origine, per quanto apparentemente strano possa sembrare, deriva dall’antico provenzale janfoutre, a sua volta nato dall’unione del nome proprio Jean (Giovanni) e del verbo foutre (fottere).

In Francia, d’altronde, era consuetudine associare per antonomasia uno Jean qualunque (un tizio, diremmo noi; o un Caio, o un Sempronio) ad alcune caratteristiche diffuse fra la popolazione, con la conseguenza che durante la dominazione francese si è diffuso in Sicilia e ha portato a coniare anche il lemma gianfuttiràta o gianfuttràta, che non per niente significa birbonata, bricconeria.

Se, però, dalla Trinacria ci spostiamo nel resto dell’Italia meridionale, a cominciare dalla vicina Calabria, scopriremo che il gianfòttere indica spesso anche un succulento piatto povero a base di verdure fritte, che in Sicilia viene invece chiamato ciambotta.

In questo caso l’etimologia è collegata al francese chabrot, che vuol dire miscuglio, in considerazione del gran numero di ingredienti mescolati insieme in cottura, anche se la sovrapposizione d’uso fra ciambòtta e gianfòttere resta attualmente molto comune in diverse regioni del Sud.

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