Vi è mai successo di ritrovarvi in una città siciliana all’imbrunire e di iniziare a sentire nell’aria dei curiosi squittii? Magari avrete pensato che si trattasse di uccelli, grilli o insetti di altro tipo, ma è probabile che invece fosse il verso tipico di quello che in tutta la regione è conosciuto con il nome di taddarìta (o tadarìta, o tallarìta).

Si tratta, e chi conosce la biologia lo avrà già capito, del Molosso di Cestoni, il cui nome scientifico è (guarda caso) Tadarida teniotis, e che è stato lo scienziato statunitense di origine franco-tedesca Constantine Samuel Rafinesque-Schmaltz a descrivere per la prima volta, in quanto nuova specie di pipistrello. Oggi lo si riscontra anche come cognome diffuso soprattutto nel Sud Italia, negli Stati Uniti e, in misura minore, in Australia, Argentina e Francia.

La storia della taddarìta, però, è ben più antica e complessa di così. Innanzitutto, infatti, l’origine del suo nome si deve all’antico termine greco νυκτερίς -ίδος (nukterìs, -idos), derivato di νύκτερος (nùkteros, ovvero notturno) e oggi diventato in greco moderno λαχταρίδα (lachtarìda). Fin qui niente di strano, dato che il pipistrello è in effetti un mammifero notturno. È curioso, però, scoprire che secondo il Vocabolario siciliano etimologico di Michele Pasqualino risale invece allo spagnolo tarde (derivato dall’omografo lemma latino), mentre nel Dizionario etimologico siciliano di Luigi Milanesi si pensa che venga addirittura dall’arabo tayr allayl, che significa uccello di notte o pipistrello.

Per di più, quale che sia l’ipotesi più probabile, in dialetto siciliano la parola taddarìta viene associata anche a molti altri concetti. In primis, infatti, è il nome che si usa per indicare nella Trinacria anche il pesce aquila, probabilmente per via della sua conformazione simile a quella di un pipistrello, oltre al fatto che in diverse aree della regione indica anche… la farfalla! Anzi, ben due tipi di farfalla: quella intesa come insetto, a sua volta vicina per forma agli animali già citati, e quella intesa come cravatta, più conosciuta di solito con il sostantivo francese papillon.

Se questa varietà filologica e semantica non dovesse bastare, vi interesserà forse sapere che sull’Isola esiste il modo di dire fari comu ‘na taddarìta, cioè fare come un pipistrello. Secondo alcuni significherebbe strepitare come fa questo mammifero al calar della sera, mentre da altri è usato nel senso di dimenarsi e inquietarsi come un pipistrello, forse in riferimento a quando si incaglia per sbaglio in qualche oggetto dal quale non riesce a tirarsi fuori.

Per non parlare, infine, di una convinzione risalente forse alla metà del secolo scorso, secondo la quale per catturare e poi bruciare una taddarìta (in quanto rappresentazione di Satana) bastava sfiorarla con una canna. E, se l’animale non era propenso ad avvicinarsi, si poteva sempre ricorrere a una filastrocca che nella credenza popolare lo avrebbe attirato alla stregua di una formula magica: Taddarìta, canna canna, / lu dimoniu t’incarna / e t’incarna pi li peri, taddarita, veni veni. / E t’incarna pi la cura, / taddarìta veni allura.

Da allora, per fortuna, ne è passata di acqua sotto i ponti e i pipistrelli godono di una maggiore benevolenza da parte della popolazione, anche se la sua ricca storia continua a essere conosciuta e tramandata in Sicilia di generazione in generazione.

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