Gianluigi Gelmetti «La IX di Beethoven, semplicità agognata»
«Catania, con i suoi contrasti, mi fa sentire il peso della nostra vecchia civiltà e lo sberleffo, l’arroganza, che la provoca continuamente. Amo il Teatro Bellini. Tutta l’Italia dovrebbe andarne fiera e trovo una vergogna che abbia dovuto passare momenti così difficili. Quest’orchestra sa fondere la vitalità, l’intelligenza e lo stile con la curiosità, una dote rara. Ho condotto tante volte la Nona Sinfonia e ho vinto dei premi in Giappone come a Bonn, ma devo dire che qui sono proprio bravi. Non avrei difficoltà a fare una tournée con loro e a misurarmi nei più grandi festival internazionali». Quando ci accoglie nel suo camerino, subito dopo una prova di cui è evidentemente soddisfatto, il Maestro Gianluigi Gelmetti non cela il suo entusiasmo per la città all’ombra del vulcano, i suoi musicisti, la sua gente. Un affetto e una stima sinceri, maturati e cresciuti nel corso degli ultimi anni, che lo hanno visto protagonista come direttore principale ospite dei più importanti debutti di stagione al Teatro Massimo Bellini. Non farà eccezione il 2020, che lo vedrà sul podio venerdì 10 e sabato 11 per dirigere la Sinfonia n. 9 in re minore per soli, coro e orchestra op. 125 di Ludwig Van Beethoven inaugurando il nuovo cartellone del Teatro catanese nel 250° anniversario dalla nascita del grande compositore.
Maestro, cosa la meraviglia, ancora oggi, della Nona sinfonia?
«La Nona è per me un agognare la semplicità. Ciò emerge in particolare nel quarto movimento perché dopo il primo – dallo straordinario incipit che tuttavia non mi piace pensare come “l’inizio del mondo” – il secondo e il terzo – che è invece siderale e sottolinea quanto Beethoven fosse astratto in un’altra dimensione – si pone un po’ come la summa di tutto questo, anche se, senza dubbio è il più problematico da approcciare e far comprendere. L’inizio del quarto tempo – che per me non dev’essere troppo mosso – con la dissonanza tra le trombe e i clarinetti è uno shock. Poi c’è una parte in cui i fiati sembrano quasi tratteggiare “lo zapping della vita”, con i suoi frammenti che scorrono davanti. C’è il recitativo, che all’inizio sembra voglia parlare senza riuscirci. E poi, un po’ alla volta, questo tema fantastico che esplode nell’Inno alla gioia, il quale man mano sembra ci racconti tutta la fatica dell’umanità per scoprire la verità, Dio, l’abbraccio universale per risolvere nella gioia pura della semplicità».
Poc’anzi alludeva alla capacità di spiazzare di Beethoven. Era questa una sua costante?
«Senza dubbio. La leggenda narra che Haydn si trovasse in sala per il debutto della Prima Sinfonia e che, appena sentito l’attacco, si alzò e andò via. Del resto, se lo raffrontiamo con quello della 104 di Haydn, quello di Beethoven era un vero schiaffo. Cominciare una sinfonia sulla dominante con questo accordo, questo pizzicato e il forte-piano… mettetevi nei panni di chi visse in quell’epoca: era una roba impensabile».
«Ciò che viene tramandato con gli scritti dei grandi compositori credo vada preso con le pinze: Beethoven era pazzo come un cavallo, provocatore, contestatore, ma anche uno strano perbenista. Non dobbiamo amare un musicista perché ci piace quello che diceva»
Quando Beethoven ha scritto la sua musica non è stato estraneo alle contingenze del suo tempo, basti pensare alla dedica a Napoleone inserita e cancellata nell’Eroica. Tuttavia nel corso di questi 250 anni vi sono stati vari utilizzi politici della sua musica. Cosa rende universale la musica del genio di Bonn?
«Quello dell’utilizzo della musica è un discorso molto complesso. E anche la Nona ha avuto tanti significati sbagliati. Non dimentichiamoci che è stata diretta nel 1942 dal povero Furtwängler nello stadio di Norimberga. Io non riesco a capire come possa esserci in quella musica – e in quelle parole – qualcosa che non sia la bontà, la gioia. Il fatto è che, in generale, dal punto di vista musicale non esiste un “sistema buono”. L’Internazionale e Faccetta Nera non hanno particolarità musicali e sono tranquillamente intercambiabili. Ovviamente peso diverso hanno le parole. Per quanto riguarda le idee politiche di 200 anni fa: direi di stare molto attenti a al contesto. Ciò che viene tramandato con gli scritti credo vada preso con le pinze: Beethoven era pazzo come un cavallo, provocatore, contestatore, ma anche uno strano perbenista. Non dobbiamo amare un musicista perché ci piace quello che diceva. Lo stesso Wagner, certamente ha scritto delle cose che meriterebbero di essere cancellate, ma bisogna vedere il momento in cui sono state scritte. La musica va oltre».
A proposito di Wagner. Nel 1878 Nietzsche in “Umano troppo umano” scrisse che se Beethoven fosse tornato in vita ascoltando una delle sue opere «secondo la pienezza di sentimento e l’affinamento dei nervi più moderni, che dan gloria ai nostri maestri dell’esecuzione» sarebbe rimasto interdetto non sapendo se maledire o benedire e infine avrebbe chiosato: «Ebbene! Questo non è né io né non-io, ma una terza cosa – mi sembra anche qualcosa di giusto, benché non proprio il giusto». Esiste un Beethoven “autentico” e filologicamente corretto?
«Trovo Nietzsche molto divertente. Chiaramente ce l’ha con Wagner, il quale da brav’uomo d’ordine ha ri-strumentato tutto l’ingresso della Nona. A me invece così, apparentemente sbagliato piace di più. L’ho provato tante volte, ho anche chiesto a un altro compositore di lavorarci e alla fine mi son detto: lasciamolo così. Si potrebbe dire: le trombe allora non lo potevano suonare in quel modo ma oggi sì, per cui… Tutto è possibile, va bene, ma questa è una delle grandi domande: cos’è davvero corretto da un punto di vista filologico? Io sono un ex talebano della filologia, un pentito perché oggi, a 74 anni, mi rendo conto che è impossibile ricostruire un contesto storico se nel frattempo il mondo è cambiato. Il contesto in cui ho vissuto da ragazzo è totalmente diverso da quello di oggi. E l’accelerazione di questi ultimi anni un po’ mi spaventa, un po’ mi affascina perché non sta cambiando solo il modo di comunicare e interagire, ma di intendere la realtà stessa».
«Beethoven, come lo vedeva il ritmo? Siamo sicuri che certe versioni della quinta con approcci diversi da quelli cui siamo abituati siano inesatte?» La provocazione: «Sarebbe davvero blasfemo mettere una batteria?»
Un altro grande problema “filologico” è quello legato al modo d’intendere il ritmo rispetto alle partiture. Lei che posizione ha a riguardo?
«Dobbiamo chiederci: come veniva suonata questa musica all’epoca? Sicuramente in modo molto diverso da oggi. Credo che l’imbarbarimento del ritmo che viviamo sia venuto da una sua criminalizzazione tra la fine del 800 fino all’inizio del 900. In pratica è stato visto come una cosa peccaminosa, al pari del sesso. Eppure, a rileggere il finale del Barbiere di Siviglia «E il cervello poverello…» con le sue terzine, si presta a uno swing perfetto. E Beethoven, come lo vedeva il ritmo? Siamo sicuri che certe versioni della Quinta con approcci diversi da quelli cui siamo abituati siano inesatte? Lancio una provocazione: sarebbe davvero blasfemo mettere una batteria?»
Dalla nostra inchiesta “Giovani e Teatro” emerge chiaramente come la maggior parte degli intervistati tra i 15 e i 30 anni abbia indicato per il proprio palinsesto ideale alcuni brani del “repertorio classico”. In che modo questo può essere una chiave per coinvolgerli a Teatro?
«Personalmente non condivido l’idea di un ammiccamento per portare i giovani ai concerti o all’opera. I giovani non sono una categoria e il solo fatto di non avere i capelli bianchi non è un argomento comune. Oltretutto, fin da quando ho memoria, i teatri sono sempre stati frequentati da persone di una certa età. Viene da chiedersi, allora, gli anziani che incontriamo ai concerti oggi dove fossero quarant’anni fa. Forse il punto è che la musica posta come la porgiamo è da persone mature».
«Credo che non esista solamente il modo paludato del Teatro con tutti i problemi che ci stiamo a porre noi. E non dobbiamo criticare se si fa musica o teatro musicale anche in un modo più libero»
Tuttavia, il modo di proporre la musica nei teatri può essere molto difficile da approcciare per un neofita. Il fatto, ad esempio di essere zittiti, qualora si applaudisse tra un movimento e l’altro si traduce inevitabilmente in un senso di inadeguatezza e disagio. È ipotizzabile, in questo senso, un approccio meno rigido?
«Poc’anzi parlavamo di filologia. Facciamone allora una dell’ascolto: all’epoca di Beethoven si applaudiva, eccome. Immaginate il Maestro alla prima della Nona fare l’ira di Dio. Si racconta che il famoso “colpo” del timpano nel secondo movimento avesse inizialmente sconvolto gli ascoltatori, ma che dopo un po’ innescasse ogni volta applausi e ovazioni. Era un modo molto più vicino al pop, al folk e non c’era questo approccio borghese che impone che al concerto si debba andare in un certo modo. In Australia, dove ho lavorato a lungo, ricordo un pubblico colto e appassionato che applaudiva quando gli veniva in mente. Era bellissimo e mi dispiacque constatare come fosse stato progressivamente imborghesito dagli europei. Credo che non esista solamente il modo paludato del Teatro con tutti i problemi che ci stiamo a porre noi. E non dobbiamo criticare se si fa musica o teatro musicale anche in un modo più libero. Anni fa a Roma abbiamo messo in scena il Flauto Magico e il Don Giovanni in piazza del Popolo con oltre 100.000 persone. Fu un modo di veicolare la musica diverso, che richiese un approccio nuovo – come un grosso lavoro di fonica affinché si potesse ascoltare bene in ogni punto della piazza e una regia video da concerto pop – ma il risultato fu incredibile. La gente stava ovunque, perfino seduta sulle sfingi di pietra. E alla fine, ammetto che dal punto di vista della civiltà non sia stato proprio il massimo, ma leggere una scritta con lo spray “Mozart ti amo” è stato davvero da orgasmo».