«I miei nonni mi hanno educato alla storia dell’opera, perché si sono conosciuti durante una prima della Scala e sono cresciuto nell’emozione dei loro ricordi. Mi piace mettere in scena queste emozioni». È così che Alfonso Signorini, volto noto spesso associato al mondo della televisione, racconta il suo legame con la lirica. A lui, per l’apertura della stagione 2023/2024, il “Teatro Massimo Bellini di Catania” ha deciso di affidare la regia della “Turandot” di Giacomo Puccini – di cui quest’anno ricorre il centenario dalla morte – con il finale di Luciano Berio, la cui prima andrà in scena venerdì 12 (con repliche fino al 20 gennaio) e che vedrà sul podio il direttore tedesco Eckehard Stier dirigere l’orchestra del teatro etneo. Tra i solisti, il soprano Daniela Schillaci (Turandot) e il tenore Angelo Villari (Calaf). L’allestimento, che prende le mosse da quello realizzato dallo stesso regista per il Festival Pucciniano di Torre del lago del 2017, promette di essere fedele al materiale originale: «La mia regia sarà a servizio della musica. Lo dico da musicista che conosce Puccini, straordinario uomo di spettacolo affascinato da tutte le arti e dal cinema che nasceva in quegli anni». 

Per questa messinscena Signorini ha scelto di privilegiare la tematica della condizione femminile. Riflettori puntati dunque non sulla misteriosa Turandot (Daniela Schillaci), ma su Liù (Elisa Balbo), la donna che, con il suo sacrificio d’amore, spinge la principessa a sciogliersi e lasciarsi andare ai suoi sentimenti. Un’altra donna farà incursione sulla scena: Lou-Ling, antenata di Turandot, la quale appare per risolvere lo psicodramma che impedisce alla principessa di concedersi. «Al dialogo tra la protagonista e la sua antenata corrisponde una sospensione del tempo scenico spiega Anna Aiello, professionista siciliana che insieme al collega Paolo Vitale coadiuva Signorini in qualità di assistente alla regia – dal momento che l’intreccio narrativo dell’opera risulta già risolto dal bacio tra Turandot e Calaf». 

«Alla fine dell’opera c’è una luce nuova, grazie al trionfo dell’amore che nutre il popolo di una nuova fiducia nella vita»

Alfonso Signorini

A questo punto dello spettacolo la platea starà già ascoltando il completamento realizzato nel 2001 dal compositore Luciano Berio. Un’operazione che ci ricorda come il canto del cigno di Puccini (l’opera rimase incompiuta nel 1924 e proposta per la prima volta due anni dopo a Milano) sia terreno di sperimentazione e curiosità. «Puccini, con Turandot, è il collante tra antico e nuovo – continua Aiello –. Il genere dell’opera non è morto, si è semplicemente trasformato. Del resto, oggi abbiamo ancora il musical».

Sul piano visivo, nonostante Signorini abbia prediletto un approccio complessivamente tradizionalista, non mancheranno alcuni suoi tocchi personali: «Ho voluto rappresentare una Pechino vivida nelle sue luci e nei suoi colori, ma schiacciata dal cinismo e dal senso della morte. Soltanto alla fine dell’opera c’è una luce nuova, grazie al trionfo dell’amore che nutre il popolo di una nuova fiducia nella vita». 

Ed è proprio l’amore, del resto, l’elemento-chiave attorno al quale ruota il racconto musicato da Puccini. Un elemento che, secondo Signorini, dall’epoca in cui di Adami e Simoni scrissero il libretto, continua a dominare la nostra società, seppur esprimendosi in modo diverso: «L’amore è uno dei leitmotiv anche del Grande Fratello, che più che un reality è un romanzo popolare, perché è lo specchio dei nostri conflitti sociali. A volte mi viene chiesto come mai ci sono così tante persone maleducate nei miei programmi: non sono le stesse persone che incontriamo all’ufficio o al bar? La vita è così, non è fatta solo di grandi eroi».

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