È appena un bambino quando fra i tasti bianchi e neri incomincia a leggere le note ma è ascoltando una musicassetta di Big Luciano, trovata in casa, che Giulio Pelligra si appassiona al canto. Ben presto inizierà a studiare a Palermo con Elizabeth Smith, per debuttare diciasettenne a Malta prima ne “Le nozze di Figaro”, l’anno successivo ne “Il barbiere di Siviglia”. Catanese di nascita, valguarnerese di origine, Pelligra è stato definito dalla critica come “un vero tenore all’italiana, in possesso di una voce svettante e luminosa”, un aggettivo che lui ha spesso accostato al suo grande idolo, Luciano Pavarotti. «Per me è sempre stato l’espressione massima del belcanto italiano. La sua voce chiara, con il sole dentro, restituiva all’ascolto un senso di libertà che io oggi ricerco tutte le volte che salgo sul palcoscenico». E di palcoscenici, Pelligra ne ha calcati parecchi diretto da Roberto Abbado, Daniele Gatti, Daniel Oren; la sua voce particolarmente brunita ma con facilità all’acuto gli ha permesso di affrontare repertori estremi come il Guglielmo Tell di Rossini, I Vespri siciliani di Verdi, La sonnambula e I puritani di Bellini per arrivare a La tempesta di Halévy, che ha portato in scena allo scorso Wexford Opera Festival. «Un ruolo veramente complesso, con una tessitura molto acuta quasi da soprano che mi ha messo duramente alla prova. Anche se è stata una sfida che ho raccolto con piacere».

In questi giorni è impegnato al Massimo di Palermo, dove interpreta Alfredo Germont, un personaggio che è ormai nel suo repertorio da tempo. Ci racconta l’interpretazione registica che ne ha dato Mario Pontiggia e quella musicale del M° Carlo Goldstein?
«Questa “Traviata” non è una produzione classica, la vicenda è stata infatti trasposta nella Palermo di Franca Florio, durante la Belle Epoque, tuttavia Pontiggia non ha stravolto le indicazioni del compositore e del librettista. Il M° Goldstein, che conoscevo perché mi aveva già diretto nel Gugliemo Tell, ha dato invece una lettura molto intensa anche se snella all’opera».

Come Marie Duplessis, la cortigiana che ispirò il personaggio di Violetta Valery, anche Franca Florio ha segnato un’epoca.
«Marie era sì una prostituta ma amava anche molto leggere, suonare il pianoforte, frequentare salotti così come Franca Florio è stata una donna all’avanguardia per il suo tempo, che ha contribuito a legittimare un modello femminile nuovo, restituendo un’immagine diversa della Sicilia. Non voglio fare populismo, ma la storia ci insegna che noi siciliani siamo sempre stati un popolo molto evoluto, che su tanti fronti ha anche bruciato delle tappe, e questo per me è sempre stato motivo di grande orgoglio».

È questo profondo senso di appartenenza che le ha fatto decidere dopo tanti anni a Bergamo di stabilirsi a Bari?
«Beh, diciamo che per molto tempo ho fatto il girovago, poi ho sposato mia moglie che è barese (il mezzosoprano Simona Di Capua, ndr) e mi sono trasferito lì. Abbiamo preferito rimanere al Sud per una questione di clima e di qualità della vita. Non che al Nord si viva male, ma reputo che Bari sia una città che offre molto. Poi questo sodalizio artistico con il Massimo mi permette di tornare almeno una volta l’anno nella città che mi ha visto crescere e formare, e questo mi rende molto felice».

Oltre a Palermo lei è stato spesso ospite al Bellini di Catania e al Luglio Trapanese. Secondo lei che stagione sta vivendo oggi l’opera lirica in Sicilia?
«Devo dire che il Massimo è uno dei teatri siciliani più all’avanguardia ma anche il Bellini di Catania negli ultimi anni, grazie al M° Carminati, sta vivendo un periodo di rinascita con molte produzioni importanti. Anche l’aver riproposto dopo tanti anni il Festival belliniano, con grandi nomi della scena internazionale, credo sia un ottimo segnale. Due realtà di spicco che offrono la possibilità a molti artisti isolani di potersi esprimere».

Qualche mese fa, sempre a Palermo, è stato protagonista del “Requiem per le vittime delle stragi”. Come rivive oggi quell’esperienza alla luce dell’arresto del boss Matteo Messina Denaro?
«Sono stato onorato di aver prestato la mia voce per ricordare le vittime di un sistema così tremendo. Oggi purtroppo c’è ancora chi vive nell’omertà, evita le domande, si nasconde, non parla, per paura di ripercussioni. La mafia però può essere sconfitta solo se si resta uniti. In tanti hanno sacrificato la loro vita per un ideale, non lasciamo che il loro sforzo rimanga vano».

Diciamo che il “Requiem” fu un’operazione di rilievo già nel 1993 non solo per il suo valore intrinseco ma anche per il fatto che coinvolse grandi nomi come Consolo, Sollima, Betta, Tutino.
«Assolutamente, devo dire che Palermo ha sempre sperimentato. I primi titoli a cui ho preso parte non erano certo di repertorio, penso a opere rare ma di estrema bellezza come “Die Gezeichneten” di Screker e “Der König Kandaules” di Zemlinsky. E comunque in quelle occasioni il Teatro è sempre stato pieno perché la gente è curiosa di conoscere altro».

Pensa che questo discorso possa valere anche per i giovani?
«Devo dire che a Palermo come anche a Bari ho sempre visto tanti ragazzi in sala. Credo che la comunicazione di un teatro abbia un ruolo centrale nel veicolare il messaggio, arrivando a un pubblico sempre più ampio. È una componente dalla quale non si può e non si deve più prescindere». 

Un ruolo che non ha mai interpretato e che le piacerebbe debuttare?
«Sono molto legato a Un ballo in maschera, quindi Riccardo è il mio sogno nel cassetto. Spero di poterlo interpretare presto, nel frattempo a febbraio sarò a Budapest con lo Stabat Mater di Rossini, a marzo debutterò il Macbeth di Verdi al San Carlo di Napoli, poi sarà la volta de L’elisir d’amore, un’opera che ho già cantato a Taormina e Piacenza, che questa volta porterò nei teatri di Nantes, Lorraine e Rennes prima di tornare a interpretare Alfredo a Cagliari».

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