La sofferenza è spesso silenziosa. Affogata nell’indifferenza e nella fatica. Aggrappata ad un gesto stentato, appena accennato, soffuso. Vive sotterranea, perché non ha lo stesso fascino delle apparenze. È antiestetica, controcorrente, ingombrante. Ti inchioda a riflettere sulle ragioni della sua esistenza, anche quando sarebbe più comodo ed ipocrita ignorarla. Scorre parallela, seguendo un tempo sospeso tutto suo, in una dimensione sentimentale estranea al resto delle cose. Talvolta, facendo breccia in questa cappa di alienazione, solo l’arte la fa emergere dal suo sprofondo, conferendole la dignità che merita. Illuminandone le storie, i protagonisti altrimenti anonimi, le cause più o meno grandi della loro emarginazione. Immaginandone i linguaggi, gli sguardi, sostituendosi alla loro impotenza comunicativa. Elevandoli, anzi, laddove persino il loro dolore può sperare di scoprire un senso. È l’arte degli ultimi, degli indifesi, degli sconosciuti. L’arte che ben conosceva e praticava il nostro Renato Guttuso, con il suo sguardo penetrante e privo di indugi sulla realtà. Spesso, infatti, i comuni soggetti delle sue opere hanno incarnato qualcosa di universale, dei simboli che sapevano contestualmente raccontare il contingente e l’eterno, l’effimero e il permanente. Come squarci di vita che si ripete uguale a sé stessa pur risultando cangiante. Come frammenti di storia faticosamente ricomposti che interpellano la nostra secolare indifferenza.

È ciò che accade, ad esempio, in una tela che il pittore di Bagheria realizzò all’indomani della Seconda guerra mondiale. Quando, tra le macerie di un conflitto devastante, la minuta normalità dell’innocenza sgomitava per farsi nuovamente strada. Contadini al lavoro è il suo titolo. E già nella sua essenzialità, nel suo richiamare l’eterno e paralizzato ritorno che contraddistingue le dinamiche del mondo rurale, si squaderna la durezza che accompagna una categoria umana eletta dal destino a perenni sforzi titanici senza garanzia di ricompensa. Sembra quasi, quel manipolo disgraziati scavati nei loro volti di terracotta asfissiati dal sole, una metafora della vita e della sua fragilità, soggetta ad intemperie che da un momento all’altro potrebbero sovvertirne l’ordine. Anche i colori – che, come spesso accade nella produzione di Guttuso, scombinano l’impressione di realismo con il loro espressionismo innaturale – astraggono la scena dall’hic et nunc: il campo destinato ad essere coltivato si accende di un misto tra rosso e blu. È il campo di ogni tempo e di ogni luogo, il teatro su cui secoli di sventurati si sono alternati nel dissodare l’aspra terra dei loro padri. Solo le zappe, con la loro estremità argentata, spiccano rispetto alla patina cromatica dello sfondo. Alcune di esse, quasi preconizzando il termine di quell’attività disumana, paiono screziate di sangue, brandite come armi che progressivamente, colpo dopo colpo, prosciugano il suo utilizzatore. Non c’è spazio per interruzioni, per sollevare il capo da quella meccanica fabbrica di sudore: e infatti i personaggi della tela non ci degnano di uno sguardo. Tutti, tranne uno. Significativamente posto al centro, baluardo di una resistenza disperata, scheletrico nella sua posa statuaria. I suoi occhi, ingialliti dalla polvere, puntano direttamente su di noi: ci scrutano come se i suoi pensieri avessero una voce. Ci accusano come si fa con chi, dinanzi alla verità, preferisce voltarsi dall’altra parte. Come se fosse sempre stato lì. Come se fosse destinato a restarci per un tempo imprecisato, ingabbiato da qualcosa di più grande che è difficile comprendere, ma non sentire sugli avambracci venosi che scoppiano di lavoro. Quegli occhi guardano al passato, ma anche al futuro. Sono i suoi e quelli di tanti altri come lui. Cercano noi, e tanto altri come noi. «È una terra drammatica la Sicilia. È drammatica fisicamente, è drammatica la sua natura e sono drammatici i suoi personaggi. I siciliani – diceva Guttuso – sono tendenzialmente drammatici, e naturalmente non si può essere insensibili a queste cose».

In quella drammaticità, sembra volerci dire l’artista, calarsi è necessario. Certamente non piacevole, ma necessario. Perché non esiste verità senza difficoltà nel raggiungerla. Non esiste sguardo autentico senza l’ostacolo del dolore. Non esiste umanità senza il coraggio di prendere sulle spalle la disperazione del proprio simile. Anche quella che non abbiamo conosciuto direttamente. Anche quella che sembra senza colpa. Anche quella che accade, sempre, pur lontana dalla nostra attenzione. Che ha il suono flebile dell’impugnatura di un manico di legno.

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