«La fotografia si legge, non si guarda. Pirandello in una sua opera, a un personaggio fa dire: “Spesso uno guarda, ma non vede”. L’immagine va letta per non passare velocemente davanti ai nostri occhi ed essere dimenticata con la stessa velocità con cui ha intercettato i nostri occhi. Solo la lettura profonda delle immagini può aprirci al suo significato intenso». A dichiarare questo con determinazione è Giuseppe Leone, uno dei più grandi fotografi italiani classe 1936, originario di Ragusa dove tuttora vive e lavora. In oltre cinquant’anni di carriera, ha saputo cogliere, con una sensibilità paragonabile a quella di un poeta, le contrastanti realtà siciliane: dal paesaggio dolce o drammatico all’architettura barocca, passando per quella commistione di religiosità e paganesimo che sono le feste popolari, alle immagini dei suoi conterranei.

Ecco come Leone racconta la nascita della sua passione: «Quando ero piccolo – avevo sei anni o poco più – mio padre, organista della cattedrale, mi portava con lui quando si celebravano i matrimoni, che mi apparivano spettacoli straordinari… Nel 1961 aprii un mio studio dedicato soprattutto alle foto dei matrimoni e in più di 40 anni di lavoro ho potuto assistere ai molteplici cambiamenti sociologici e culturali che hanno caratterizzato questa istituzione fino ad arrivare a una esplosione consumistica in cui il fotografo ha assunto un ruolo centrale non solo come cronista, ma di vero e proprio regista dell’evento, sempre più ispirato al mondo artificioso delle “telenovelas”».

I suoi scatti, caratterizzati dalla scelta del bianco e nero, si fanno testimoni intimi e ironici di alcune tradizionali e sentite ritualità isolane, come quella del matrimonio: dalla vestizione all’addio alla casa paterna, passando per il giubilo della cerimonia e del ricevimento.

«Contemporaneamente coltivavo la mia grande passione per la fotografia – prosegue il maestro ragusano – intesa come ricerca personale, bisogno di espressione. Negli anni tra il 1958 e il 1959, ho iniziato questa mia ricerca per l’ambiente, che poi ho proseguito negli anni ’60 con una documentazione vastissima fatta di immagini del neorealismo legati al mondo operaio, contadino, alle miniere d’asfalto che c’erano a Ragusa. C’è una profonda ricerca per quanto riguarda la fotografia antropologica. Tutto ciò culminò con il mio primo libro, realizzato insieme all’antropologo Antonino Uccello dal titolo Città del Regno di Sicilia». Fotografavo a cavallo di un periodo sui generis in cui avveniva il cambiamento delle città, cancellando quel che era stata per anni la lunga tradizione contadina e popolare”.

Al pari di altri grandi cantori della Sicilia come Sciascia, Bufalino e Consolo, Leone ha saputo indagare le contraddizioni della sue terra mostrandone al contempo la bellezza. «La macchina fotografica – ebbe a dire a proposito dello strumento della sua arte – è uno strumento per poter dialogare con quello che ti circonda. Il fotografo diviene, oltre che un interprete, un ricercatore. A me non interessa l’immagine eclatante da scoop, ma una fotografia concettuale, di ricerca, di immediatezza, visto che mi dedico ad afferrare l’immagine al volo. Quando torno da una battuta fotografica sono felice se nel mio paniere ci sono almeno tre immagini indimenticabili. Le immagini per essere tali devono avere una grande forza evocativa e interpretativa».

E proprio ad uno scatto che ritrae i tre autori è dedicato questo appuntamento della rubrica: «La fotografia più straordinaria di Sciascia, Bufalino e Consolo, cioè dei tre grandi scrittori insieme in una risata incredibile che stravolge i tre personaggi seriosi e diversi che siamo abituati a conoscere, è stata scattata durante un’intervista nel 1982 a Racalmuto in provincia di Agrigento, città natale di Sciascia. Si aspettava l’arrivo di un famoso giornalista e pensavo “qua posso fare un colpo straordinario”, ma restarono solo loro tre. Erano in posa e parlavano tra di loro, io avevo la macchina fotografica sulle gambe e la tenevo pronta, con un obiettivo normale, un 50 mm, così avevo l’angolazione più giusta e aspettavo che succedesse qualcosa per creare una fotografia diversa dalle solite che vengono pubblicate sui giornali e in cui gli intervistati sono fotografati in posa. Fecero una battuta e io risposi con una sequenza di scatti ed è uscita fuori questa fotografia. Addirittura, un collezionista di Milano ha voluto comprare, insieme alla fotografia, il corpo della Leica con cui la scattai». L’istantanea non può non coinvolgerci in quanto spettatori. Ci fa sorridere insieme a loro, invasi da una letizia sconfinata che si perpetua in eterno.

Sull’avvento del digitale, Leone non ha dubbi: «La fotografia è una cosa seria. Di tutto quello che sta succedendo adesso, dell’ossessione dell’immagine digitale che caratterizza questo momento, non resterà nulla. Stampare una fotografia resterà sempre un atto di responsabilità, dare materia all’immagine. E richiede ponderatezza. Prima quando chiedevo “che tempo mi date” per consegnare un lavoro, mi veniva risposto “quello che ti serve”, oggi mi sento dire “ieri”. Siamo diventati usa e getta. E infatti non c’è neanche una bella letteratura fotografica, non c’è il tempo per quell’interpretazione dei fatti più approfondita. Lavorando in analogico, invece, ogni immagine risulta unica ed irripetibile, mentre con il digitale questa unicità si perde».

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