«Cerco di dare voce a chi non ce l’ha. Racconto la sofferenza delle persone che fotografo o semplicemente la storia di quello che sto vedendo». A parlare così del suo lavoro è Marco Di Lauro, fotogiornalista di guerra che ha vissuto in prima persona e documentato molti territori difficilmente comprensibili a noi occidentali.  

Di Lauro, 50 anni, comincia la sua carriera occupandosi di problematiche sociali. Tra il 1990 e 1994 documenta l’infanzia violata in India e la povertà delle popolazioni andine in Perù. Nel 1997 ha inizio la sua attività nei teatri di guerra. Nel luglio di quell’anno, il fotoreporter parte va in Kosovo per documentare l’inizio della pulizia etnica. È in questa occasione che l’Associated Press lo chiama nel suo staff. Sempre per l’AP racconta il Giubileo del 2000 da Roma, dove si trasferisce e lavora come photo-editor per l’ufficio locale dell’agenzia americana.

Nel luglio 2001 segue il summit G8 a Genova e nell’ottobre dello stesso anno, due settimane dopo gli attentati contro il World Trade Center e il Pentagono, parte per l’Afghanistan, attraversando a piedi gli altipiani da nord per riuscire ad entrare nella regione. Sarà lì uno dei primi occidentali in grado di documentare, dall’interno, la caduta di Kabul sotto il fuoco delle Truppe dell’Alleanza del Nord, il 13 novembre 2001. Lo stesso giorno viene colpito alla schiena da un proiettile sparato da un guerrigliero talebano durante un’imboscata. Lo salva il giubbotto antiproiettile.

«Nel reportage Internally Displaced in Chad scatto una foto di un giovane guerriero. È una persona con cui ho passato diverse giornate, perché era al seguito di un “commilitone” ferito che veniva portato da un posto all’altro, in questo flusso di rifugiati»

Dal settembre 2002 Marco Di Lauro lavora in esclusiva con l’agenzia americana Getty Images  per molti  conflitti, quello  mediorientale lungo la Striscia di Gaza, quello in Iraq, per documentare l’invasione americana e il dramma della popolazione irachena e la guerra civile in Chad.  

Proprio da questo tragico evento è presa la foto che presentiamo in questa rubrica. Marco stesso la racconta così: «Nel reportage Internally Displaced il 13 novembre del 2006 in Chad scatto  una foto di un giovane guerriero, ripreso dal basso, con la sigaretta in mano e lo sguardo in camera. Credo fosse lo sguardo di uno che si chiedeva cosa io stessi facendo. Tenete conto che quella è una persona con cui ho passato diverse giornate insieme, perché era al seguito di un “commilitone” ferito che veniva portato da un posto all’altro, in questo flusso di rifugiati. Era una persona che si era forse anche abituata alla mia presenza. In alcuni casi, guardando un’immagine riesco a percepire se lo sguardo è quello di una persona che ti ha appena incontrato, o se è lo sguardo di qualcuno che ti conosce». L’immagine non è curata, è un’istantanea fugace. Ma lo sguardo del soldato che fuma è qualcosa che ti interpella, che ti prende, è uno sguardo pieno di domande sulla guerra e sulla morte. Il sorriso stampato nel volto del soldato a sinistra nella foto inserisce nello scatto un elemento molto importante. Come se dicesse: «Siamo in guerra, ma un momento di serenità bisogna concederselo, per noi è necessario». Inquietante, infine, nella lettura completa dell’immagine, il militare con il cannocchiale sopra un carro-armato dietro il soldato che fuma, come a rammentare a tutti che presto si ricomincerà a combattere duramente.

«I momenti più dolorosi sono stati al momento del ritorno a casa, durante l’ editing devi convivere con il dolore che hai assorbito durante il lavoro, con i fantasmi che questo genera, e con gli incubi che questi provocano»

«Per me – afferma ancora Marco – conta il risultato finale di quella che è l’immagine. Se non provassi delle emozioni forti, non riuscirei a trasmettere con le immagini quella sensibilità o quella vicinanza. Io ho bisogno di sentire – in un certo modo – quello che sentono i soggetti che fotografo. Con l’enorme differenza di potermene andare, mentre loro rimarranno poi in quella condizione. Le emozioni più forti le provo durante il processo di editing, cioè di revisione di tutto il lavoro. Nel momento in cui scatto, nelle situazioni più concitate o di grande pericolo, devo cercare di mantenere una sorta di calma, non è distacco, perché non riuscirei, dai soggetti che fotografo, che mi faccia sopravvivere e non mi faccia crollare emotivamente.  Posso però dire che i momenti più dolorosi della mia vita sono stati al momento del ritorno a casa, durante il processo di editing devi convivere con il dolore che hai assorbito durante il lavoro, con i fantasmi che questo genera, e con gli incubi che questi provocano. Sono dolori che ti porti dietro per tutta la vita.  Forse si “calcificano” nel tempo, ma una sorta di dolore ti rimane sempre, negli occhi o nell’anima, in qualche modo. È indiscutibile che vedere gente che muore per 20 anni consecutivi non faccia bene, nessuno può rimanere lo stesso».

«Non mi interessa la fotografia in quanto tale: avessi fatto o lo scrittore, o lo scultore, o il pittore, la mia attenzione sarebbe andata verso problematiche sociali, o temi che hanno bisogno di essere raccontati»

Marco, ancora oggi, nei suoi tanti reportage, soprattutto di guerra, cerca di dare voce a chi è stato dimenticato, come se non esistesse più. Lui stesso ha dichiarato ultimamente: «Il mio sguardo, nello scattare foto, va alla gente che ha bisogno di raccontare le proprie storie, bisogno di avere una voce che venga elevata all’attenzione dell’opinione pubblica. Non mi interessa la fotografia in quanto tale: onestamente, che io faccia il fotografo è un puro caso, forse dato dal talento, dalle possibilità che ho avuto, dalle influenze che ho avuto.  Se invece del fotogiornalista di guerra, avessi fatto o lo scrittore, o lo scultore, o il pittore, la mia attenzione sarebbe andata verso l’esigenza di raccontare problematiche sociali, o temi che hanno bisogno di essere raccontati. Non mi interesserebbe fare il fotografo di sport o di moda, mi interessa raccontare delle storie che hanno a che fare col sociale».

Tra i tanti riconoscimenti ricevuti, è stato premiato con il World Press Photo nel 2011 con una sua foto che è stata per diverso tempo esposta all’ingresso del Pentagono, a Washington, in ricordo della guerra in Iraq.

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