«La fotografia mi ha permesso di parlare della vita, cosa che non potevo fare con la pittura». William Klein, forse, tra tutti i giganti fotografi dello scorso secolo è quello più rivoluzionario dello stesso concetto di scrivere con la luce. Nasce a New York nel 1928 da una famiglia ebrea, di origine ungherese e già da giovanissimo, dopo la guerra, vive un interesse sfrenato per la pittura con grandi riconoscimenti. Nel 1947, dopo aver prestato servizio nell’esercito statunitense, si trasferisce in quella che diventerà la sua città d’adozione, Parigi, conquistato dal vivace ambiente culturale della capitale francese. Qui frequenta i corsi di arte e pittura alla Sorbona e frequenta lo studio del pittore e scultore cubista Fernand Léger.

È in questo contesto, così adatto a sollecitare la sua creatività artistica, che Klein si avvicina alla fotografia, sondandone le possibilità espressive e fondendole con le sue sperimentazioni pittoriche, soprattutto astratte. Già in questo primo periodo emergono i tratti di quella che sarà la sua poetica: a metà tra il grande artista dall’animo sensibile e il ragazzaccio di strada senza peli sulla lingua, Klein inizia da subito a scattare «fotografie incomprensibili quanto la vita». Il suo talento viene presto notato dal direttore artistico di Vogue America Alex Liberman, che nel 1954 gli propone di tornare a New York offrendogli un remunerativo lavoro per la rivista. 

Klein porta per la prima volta le modelle fuori dagli studi di posa, mescolandole con la gente comune e la vita reale, creando così un nuovo immaginario composto da scatti grintosi e di rottura, caratterizzati da uno stile spontaneo, potente e molto lontano dai paradigmi dalla fotografia di moda vista fino a quel momento.

In quegli anni, oltre alla moda, Klein si dedica parallelamente a quello che è sempre stato il suo grande amore: la strada. Viaggia molto, i suoi reportage a Roma e a Mosca gli diedero un respiro mondiale al suo modo eclettico di usare la fotografia. Il suo sguardo forzatamente grandangolare riesce a intercettare la realtà all’interno della scena e la sua capacità di trasformare la gente comune in personaggi teatrali e grotteschi, grazie soprattutto al suo occhio satirico.

Klein, che non si definì mai un grande fotografo, ci insegna semplicemente a guardare, vedere e vivere il momento durante lo scatto. Era convinto che la perfezione non appartenesse all’uomo e, per questo motivo, anche la fotografia dovrebbe tralasciarne la ricerca per lasciare spazio a ciò che è veramente importante: l’essere umano nella sua spontaneità.

Non sorprende, pertanto, che il fotografo, così restio a conformarsi ai canoni del tempo, ricercasse deliberatamente una costruzione “sporca” ed “errata” in ogni scatto. Nel 1961 Klein trascorse tre mesi in Giappone. Tornò dalla sua permanenza con oltre mille fotografie scattate, che ritraggono senza preconcetti e aspettative la vita pulsante di un Paese in esplosione e di una città, Tokyo, che si preparava a diventare una metropoli internazionale, alla vigilia delle Olimpiadi del 1964. Lo scatto presentato è un limpido esempio del suo metodo fotografico. È un’immagine  rumorosa, sfocata, distorta, impulsiva e pervasa da un vortice di pura energia. Tutto per raccontare la vita nella tumultuosa complessità della società di quel tempo in Giappone all’uscita della metropolitana. Nessuno guarda l’obiettivo, tutti in vibrante corsa in una città irrequieta. L’inquadratura richiama la fantasia dell’arte cubista e dell’estetica pop, l’immagine è mossa – effetto ricorrente in molti dei suoi lavori – mentre la luce è naturale. «Se le foto sono sfocate, mosse, con grana e patina, tanto meglio – affermava  Klein – più la foto è libera, anche dalla tecnica e dalle regole, più sa trasmettere libertà, vivacità e autenticità. Si fotografa la vita, non la finzione, e la vita è imperfetta, non c’è niente di più imperfetto». 

Era convinto che ciascuno scatto non dovesse semplicemente ritrarre un luogo, ma riuscire a raccontarlo catturandone l’essenza non in un istante ma in un flusso vitale incessante. «Il fotografo – ebbe a dire in un’intervista –  non può essere tanto arrogante da pensare di cristallizzare un’umanità complessa in un solo attimo. Egli deve mettere i piedi nel fango, sporcarsi le mani e seguire il moto perpetuo dell’umanità che esisteva prima e continuerà ad essere anche dopo». Nonostante il suo stile fosse spigoloso e lontano dal gusto popolare, i suoi scatti gli valsero sempre un notevole successo, tra riconoscimenti e innumerevoli esposizioni a lui dedicate in tutto il mondo. Klein non mise nel cassetto la sua macchina fotografica se non negli ultimi anni di vita, conclusasi il 10 settembre 2022. 

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