Uno dei mali del nostro tempo – che a ben vedere si trascina da un momento del passato impossibile da definire – è l’utopia della classificazione. L’ossessione della definizione ad ogni costo, l’ostinazione nel leggere la complessità del mondo alla luce di categorie rigide e invalicabili. Tutto, ai nostri occhi, deve avere un nome. O, peggio ancora, un’etichetta. Deve avere qualcosa di rassicurante, questa tensione continua a rifuggire l’incompreso, a stagliarsi sull’orizzonte del piattume, a guardare le cose da lontano senza il desiderio di osare, senza correre il salutare rischio di restarne in qualche misura influenzati. È così facendo, tuttavia, che la realtà finisce per apparirci povera. Povera di spirito, di significato, di curiosità. Povera di quei misteri che sanno di magia, che tali, e insondabili, è giusto che rimangano. E chi, meglio della scrittrice catanese Goliarda Sapienza, può incarnare questi valori di eccentricità? Quale storia, meglio della sua travagliata esistenza, può risultare una profonda testimonianza di quanto l’incomprensione altrui possa trasformarsi in un giudizio di condanna senza appello? Perché mentre tutti si affannavano a dare alla sua scrittura una qualche surreale forma di accettabilità, lei continuava a navigare su acque sconosciute, impervie. A sovvertire regole, consuetudini, linee di pensiero. Fino a fare della poesia qualcosa di non poetico. E viceversa. Fino a diventare qualcosa di imperscrutabile. E per questo, oggi, più interessante che mai.

La poesia, d’altro canto, fu per Sapienza una vera palestra di linguaggio letterario. Prima delle grandi opere che le concessero la controversa fama – L’università di Rebibbia, Le certezze del dubbio, L’arte della gioia –, prima della autoreclusione in carcere come via di fuga estrema dall’ipocrisia del vivere, è nella raccolta lirica Ancestrale che è possibile ritrovare, in fieri, quell’attitudine distruttiva e personalissima che ne caratterizzò ogni esperienza esistenziale. In quei versi, dominati da un’aura di pesante vaghezza, il dolore di un’autobiografia scottante ma appena accennata fa il paio con istantanee e fugaci rivelazioni, ma anche con frasi e concetti masticati a fatica, con un vociare quasi ingannevole, più vicino all’afasia che alla loquacità. Non c’è alcun appiglio interpretativo nello scorrere netto e quasi brutale di quei versi. Non c’è, addirittura, sostanzialmente, neppure la poesia stessa. Regnano solo pensieri disarticolati, privi di ogni gabbia, privi di ogni legame tradizionale. La rima è solo un ricordo, la metrica delle strofe altrettanto. Le figure retoriche scompaiono. Ciò che fluisce sulla pagina è un segreto che non si lascia catturare. Una dichiarazione di intenti senza compromessi, che invita tutti e nessuno a prendere in mano la propria inquietudine e a farne una guida tra le bugie e i dogmi del mondo. Così si rivolge a sé stessa in una delle liriche più significative della silloge:

«Un giorno dubitai
e in piena luce
cominciai
a vedere l’albero
il pane
il coltello e la forbice
il legno
il rame»

Sembra quasi, immagine dopo immagine, tratteggiare scorci di ricordi, innocenti momenti di familiarità rivelatisi portatori di verità inaspettate. Come se una pagina strappata di diario venisse scomposta, in maniera asimmetrica, e data in pasto al silenzio. Come se i detriti di un passato e di un presente soffocante venissero trasportati via da un fiume in piena di ribellione. «Il male – scrisse ne L’arte della gioia sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali… E poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza».

Il risultato della sua crociata fu la solitudine. Doveva necessariamente essere la solitudine. È di questa che il canto rauco e graffiato di Goliarda Sapienza si nutriva. Privo di ogni definizione. Sempre nuovo, sempre diverso. Libero di ardere e poi repentinamente di spegnersi. Cuore senza forma, se non quella del sentire.

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