In Sogno di una notte di mezza estate William Shakespeare cuce sulla bocca del personaggio di Teseo, duca di Atene, una sentenza fulminea e visionaria: «Il pazzo, l’amante e il poeta non sono composti che di fantasia». Accade spesso, tuttavia, che sia proprio il poeta a racchiudere in sé tutte queste anime della creatività, questi istinti irrefrenabili di passione e raffinatezza. E che seguire la travolgente energia del suo essere, le tracce di significato più minute e nascoste – e per questo più importanti – sia un compito alquanto arduo, se non ai limiti dell’impossibile. L’espressione poetica, del resto, è, di per sé, una contraddizione in termini: aspira all’universalità nonostante si approssimi all’intimità dell’ineffabile. Si carica di una dolorosa intensità, eppure si riveste di una purezza che la rende quasi intangibile. Si fa scrutare, ma mai catturare. Se non da un suo pari. O un suo adepto, per così dire. Non è un caso, infatti, che il testo poetico rappresenti la sfida più impegnativa in cui un traduttore letterario possa cimentarsi, tra schemi metrici, rime da trasporre e parole connotate da una valenza differente a cui dare un’interpretazione opportuna. E che solo un poeta, rinunciando all’angoscia di una presunta e irraggiungibile fedeltà all’originale, accettando di appaiare alla bellezza originaria dell’autore-fonte la propria sensibilità, possa sostenere il peso di una simile impresa. Tante, nel corso della storia, sono state le occasioni in cui si è verificata questa felice corresponsione di anime: pensiamo al francese Bonnefoy e al suo omaggio ai versi leopardiani, al rapporto di amicizia e di reciproca traduzione tra Ungaretti e Apollinaire, al celebre lavoro di rimodulazione che De André fece con le liriche di Edgar Lee Masters tratte dall’Antologia di Spoon River. O, per restare in tema siciliano, a quanto fatto da Bufalino con I fiori del male di Baudelaire. Come noto, da questo elenco non è possibile espungere neppure Salvatore Quasimodo, sulla cui resa dei grandi lirici greci e latini molti si sono persino soffermati nel loro percorso di studi. Ciò che risulta meno risaputo, tuttavia, è che lo scrittore di Modica si dilettò anche in un’altra operazione: tradurre, soprattutto per il teatro, le opere proprio di Shakespeare. Il cantore dei pazzi, degli amanti e dei poeti.

Non fu certo agevole, per Quasimodo, guadagnarsi il favore di una critica accademica legata ad una concezione della traduzione quantomeno datata. Mentre, d’altra parte, diversi studiosi si lambiccavano, tra classicismo e filologia spicciola, per restituire alla versificazione del vate di Startford-upon-Avon una patina artificiosa di aulicità, il nostro conterraneo aveva iniziato ad approntare delle traduzioni che provassero a restituire non una solennità difficilmente digeribile, ma l’immediatezza di una lirica che trapassa il cuore senza preavviso. E che non tralasciasse la sua forte vocazione teatrale. «Traducendo quest’opera di Shakespeare – scrive Quasimodo in Il problema della traduzione, riferendosi in questo caso alla tragedia Antonio e Cleopatraho incontrato le difficoltà di tutte le volte che ho letto la sua poesia. Un teatro dove il linguaggio è fluttuante, i vocaboli ripetuti, le immagini non immediate, almeno per quanto riguarda la versione nella lingua italiana, così esigente di precisione e chiarezza. Un genio, quello di Shakespeare, che deve rimanere legato alla ragione dell’imposizione originale: il teatro. Non si può dimenticare questo quando si traduce, altrimenti è facile nascondere il valore delle opere in un ammirato ma fastidioso riassunto di temi». È l’essenza più profonda di Shakespeare, quella che il poeta isolano riesce ad afferrare. L’impronta lirica ed umana di opere dalla grandiosa immediatezza, fatte di drammi e di paradossi che mai cedono il passo alla tirannia della lingua. Quasimodo sapeva – o, per meglio dire, sentiva sulla propria pelle – quanto potesse risultare deleterio asservire le fondamenta del messaggio del poeta inglese ad una lingua innaturale e posticcia. Quello operato da Quasimodo nella resa del testo di grandi capolavori teatrali come La tempesta (1948, regia di Giorgio Strehler), Romeo e Giulietta (1948, regia di Renato Simoni), Macbeth (1952, regia di Strehler) o Otello (1956, regia di Vittorio Gassman e Luciano Lucignani) è più un travaso di sentimento, uno sdoppiamento di emozione che finisce per essere, pur nella sua innegabile dualità, un unico, grande tributo alla forza della poesia. Perché, in fin dei conti, secondo Quasimodo non era la complessità a restituire lo spirito di Shakespeare. Ma la modernità che lo aveva reso unico ed inimitabile.

Interessante, in tal senso, può essere apprezzare come lo scrittore modicano abbia reso uno dei passaggi più intensi e disperati di Romeo e Giulietta: il momento in cui Frate Lorenzo annuncia al Montecchi che il principe lo ha condannato all’esilio perché ingiustamente ritenuto colpevole di aver dato il via alla rissa mortale in cui hanno perso la vita Mercuzio e Tebaldo.

«Tortura, e non grazia. Il Cielo è qui
dove vive Giulietta. Ogni gatto, ogni cane,
ogni piccolo topo, quello che c’è di più vile,
può vivere qui in Cielo, e guardare Giulietta;
solo Romeo non può. C’è più rispetto,
più cortesia, più dignità per le mosche
che girano intorno a una carogna, che per Romeo.

Le mosche possono toccare la bianca meraviglia
della mano di Giulietta, e rubare
una felicità sovrumana alle sue labbra,
che, nella loro modestia, diventano ancora più rosse
considerando peccato quei baci; ma Romeo
non può! Egli è al bando. Questo possono fare
le mosche, e io no, perché devo fuggire.
Esse sono libere, e io al bando. E tu mi dici
ancora che esilio non è morte?»

“Romeo e Giulietta”, 1948, regia di R. Simoni

Rimane certamente curioso constatare come Quasimodo, in fin dei conti, sia stato accusato di aver tradito il testo shakespeariano. Non soltanto perché, testo alla mano, il suo tocco interpretativo, quasi complementare a quello originale, ridona al testo la semplicità e la viralità che pertiene ai capolavori. Ma anche perché, più icasticamente, un poeta sincero non può e non sa tradire un altro poeta. Anche quando il loro dettato è in apparenza lontano. Perché è solo dall’incontro, e non dall’emulazione, che la poesia può trovare la forza per continuare a germogliare.

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