Una delle più belle definizioni associate al concetto di tempo mai date in letteratura appartiene a Issa Kobayashi, pittore e poeta giapponese vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. Precisamente ad un suo haiku – genere del quale, tra l’altro, fu pioniere – che recita: «Sta come un pesce / che ignora l’oceano / l’uomo nel tempo». Ma cosa accadrebbe se quella apparentemente sterminata distesa di anni, giorni, secondi si rivelasse, piuttosto, un cunicolo asfittico e senza uscita? Se la libertà di quell’orizzonte così vasto e dispersivo si tramutasse nella condanna di una gabbia che non può essere scardinata? Ci troveremmo a fare i conti con uno smarrimento impronosticato. A saltare giù da un treno in corsa deragliato verso lidi sconosciuti e amari. Figli di un’illusione frantumatasi quando ormai ci aveva del tutto avvinti a sé. Fu Pirandello ad utilizzare questa metafora nella novella Una giornata, pubblicata postuma nel 1937 come coronamento, ideale testamento delle Novelle per un anno. Potremmo frettolosamente definirlo come uno squarcio autobiografico sull’amarezza di un uomo che sente approssimarsi, come un’ombra sinistra, il fardello della fine, afflitto da rimpianti e ricordi spiacevoli. Ma sarebbe riduttivo non rintracciarvi anche una riflessione profonda sulla superficialità con cui affrontiamo i momenti che scandiscono la nostra vita. Sull’incoerenza e sulla miopia con le quali confondiamo l’essenziale con il vacuo, il prioritario con il superfluo. È la storia di un attimo che si fa vita. Ma anche il suo esatto contrario.

È la storia universale di un passeggero senza nome che in una notte dai contorni onirici, quasi allucinati, si ritrova a vivere in anticipo la scena della sua morte. A bordo di un treno, appunto. Dove la velocità con cui le sagome indistinte fuori dai finestrini sfumano appena sfiorate da un raggio di luna è la stessa con cui le diapositive immaginarie di tutta una vita danzano compulsivamente dinanzi ai suoi occhi. Regna solo, un po’ macabro e un po’ misterioso, un silenzio avvolgente, spezzato di tanto in tanto dal tonfo dei sobbalzi che i vagoni, lanciati a gran velocità, restituiscono scontrandosi con la rudezza delle rotaie. Solo il lanternino sbiadito del capostazione interrompe quegli attimi sospesi. Per dare il via a quella che al lettore, a tutti gli effetti, sembra una grande messa in scena. Il protagonista senza identità è appena arrivato, infatti, alle porte di una ignota città: «Sotto i primi squallidi barlumi dell’alba, sembra deserta. Nella vasta piazza livida davanti alla stazione c’è un fanale ancora acceso. Mi ci appresso; mi fermo e, non osando alzar gli occhi, atterrito come sono dall’eco che hanno fatto i miei passi nel silenzio, mi guardo le mani, me le osservo per un verso e per l’altro, le chiudo, le riapro, mi tasto con esse, mi cerco addosso, anche per sentire come son fatto, perché non posso più esser certo nemmeno di questo: ch’io realmente esista e che tutto questo sia vero. Poco dopo, inoltrandomi fin nel centro della città, vedo cose che a ogni passo mi farebbero restare dallo stupore, se uno stupore più forte non mi vincesse nel vedere che tutti gli altri, pur simili a me, ci si muovono in mezzo senza punto badarci, come se per loro siano le cose più naturali e più solite». Alcuni addirittura lo salutano, come se tutti, all’infuori della sua persona, sapessero quale sorte lo attende. Ed è esattamente qui, nel momento di massimo sgomento, che si consuma una delle scene più importanti dell’intera novella. Frugando tra le proprie tasche, il personaggio pirandelliano trova una vecchia fotografia raffigurante una bellissima e giovanissima donna, insieme con una banconota ormai non più in circolazione. Quasi per magia, invitato da un oste a recarsi in banca per cambiare il denaro, egli si ritrova ricco sfondato. Sembra la svolta. Ma è solo il preludio all’angoscioso finale. L’autista della sua macchina di lusso lo conduce ad una lussuosa villa, dove il senzanome si imbatte nella donna in foto. La folle giornata è ormai agli sgoccioli. L’alba successiva è una sentenza senza appello: la dimora è fredda, quasi irriconoscibile. Il protagonista è improvvisamente rattrappito dalla vecchiaia. Accanto alla sua poltrona, ecco figli e nipoti, anch’essi mestamente segnati dall’età. Il sipario, idealmente, si chiude. Il sogno, la visione, la ricchezza, la vittoria presunta sfioriti in un battito d’ali. «Mi vien l’impeto di balzare in piedi. Ma debbo riconoscere che veramente non posso più farlo. E con gli stessi occhi che avevano poc’anzi quei bambini, ora già così cresciuti, rimango a guardare finché posso, con tanta tanta compassione, ormai dietro a questi nuovi, i miei vecchi figliuoli».

Sì. Il tempo è effimero, ci suggerisce Pirandello. Ma lo è ancor di più se speso nell’utopia che possa essere governato. Che possa attendere i nostri inutili e inopportuni affanni, il nostro ignorare gli autentici affetti. Era in quelle tasche, nella semplicità di una foto, che risiedeva il seme della felicità. Ma il nostro protagonista, intento ad inseguire vane promesse, se ne è tragicamente dimenticato. Divenendo estraneo persino a sé stesso. Che senso ha se le cose ci scorrono accanto senza mai toccarci? Se ci limitiamo a ritrovarle al capolinea di un forsennato viaggio in treno, quando anche a loro faticano a ricordarsi che ci sono appartenute? «Seduto, li guardo, li ascolto; e mi sembra che mi stiano facendo in sogno uno scherzo. Già finita la mia vita?».

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