«Il fotografo, quando scatta la foto, dice di sì alla realtà, a quello che vede succedere, ma anche a ciò che potrebbe accadere e che l’immagine lascia solo intendere. Sono istanti di bellezza immortalati e al tempo stesso tappe di un percorso». Gus Powell, giovane fotografo di strada statunitense, nato nel 1974, ha frequentato l’Oberlin College dove si è laureato in religioni comparate. Subito dopo, a 24 anni si lancia nell’avventura fotografica. Nel 2003 pubblica la sua prima monografia, The Company of Strangers, nella quale le sue pause pranzo spese girovagando per Manhattan diventano un poetico racconto per immagini. Del suo lavoro, che riscuote molto successo, viene soprattutto apprezzata la sua capacità di trovare in ogni scatto la luce giusta, spesso servendosi anche dei riflessi degli edifici newyorkesi.  

Da allora, le fotografie di Powell sono apparse in periodici internazionali del calibro di Vogue e Le Monde, e oggi il fotografo collabora stabilmente con la rivista The New Yorker. È membro del collettivo internazionale di fotografi di strada e fa parte della facoltà del dipartimento di fotografia, video e media presso la “School of Visual Arts”.

Ma è nel suo terzo romanzo per immagini, Family Car Trouble (2019), che avviene una vera e propria rivoluzione dello sguardo. La fotografia ritorna al posto che le spetta, dentro l’esperienza e mai fuori, qualsiasi sia la circostanza, di gioia o di dolore, compresa la morte. È la storia di un uomo che guarda due figlie piccole sempre più appassionate alla vita, mentre osserva e registra con la macchina fotografica anche suo padre che si spegne, piano piano. Protagonista del percorso dello straordinario lavoro di scatti fotografici, oltre alla famiglia composta dalla moglie, le giovani figlie e il padre molto ammalato, è Jimmy, la station wagon che li accompagna per tutte le tappe importanti della loro vita. Tanto da aver meritato un nome proprio perché ormai è di famiglia. È sopra Jimmy che salgono le bambine a giocare, ed è sempre su di lei che danno l’ultimo saluto al nonno, quasi ad evocare un viaggio verso il cielo.

Jimmy, la Volvo 940 Turbo station wagon del 1993 che entra ed esce dalle officine per interventi mai risolutivi, è come il tempo di un viaggio in cui le figlie crescono pian piano, un viaggio dove Powell si mette a nudo senza paura, grazie anche all’aiuto fondamentale della moglie Arielle, vero «navigatore che tiene tutti in carreggiata e indica la direzione giusta» afferma Gus. È lei, infatti, che spinge il fotografo ad avere il coraggio di non nascondere anche gli aspetti più intimi della sua vita, come la malattia e la morte del padre, che viene fotografato giornalmente per l’ultimo periodo della sua vita fino allo scatto dentro la bara. Tutto questo mentre le figlie, Townes e Maude, crescono e continuano a giocare, come testimonia la foto qui presentata.

L’enorme macchina, massiccia, in apparenza indistruttibile che segue, accoglie, accompagna la famiglia fino alla morte del padre e ancora dopo, è rappresentata come se fosse una creatura umana, fragile e mortale, che ad un certo punto, dopo 22 anni di vita,  muore, non parte più. La foto è di una semplicità sconvolgente, quasi banale. La figlia di Gus ha una espressione serena, ma non sorride. L’auto è vuota, immersa in un bosco con tanta vegetazione. Gus la commenta così: «Le immagini delle mie figlie sul cofano protese verso il cielo sono come una rinascita, una risurrezione. Gesto che li avvicina al nonno scomparso e in qualche modo li unisce a lui, fanno tutti parte del mistero della vita. E se penso che anche Jimmy (la Volvo) ha partecipato a questa storia tra la mia famiglia e i problemi che accompagnano l’esistenza rimango pieno di stupore».

Le pagine di Family Car Trouble mostrano a livello fotografico un continuo gioco di rimandi. C’è una forte somiglianza tra i primi piani del padre e di una figlia di Gus; la penna a sfera che indugia sul taccuino e l’altra figlia che prova un passo di danza; le cure dedicate alla badante sul ormai stremato padre malato e il carrello in officina che solleva da terra la volvo che si è guastata. La narrativa visuale di Powell predilige una luce diurna, che non nasconde, non censura, ma invita a prendere piena coscienza di ciò che accade nella realtà che ci circonda.

Da qualche mese, il fotografo americano si è trasferito in Italia, precisamente a Venezia, dove continua ad immergersi in nuove idee di percorsi ad immagini, convinto che nella vita di tutti i giorni c’è molto di guasto, rotto e zoppicante, ma non per questo inutile. «Non posso togliere l’aggressione della morte da un corpo ormai consunto – ha affermato Gus – non posso preservare i miei figli dagli urti della vita. Spesso le cose che ho più a cuore, non posso risolverle. E questa tristezza, spesso, mi blocca un passo prima di dire sì, mi sottrae all’invito recapitato dalla realtà. Ma non demordo, persuaso che la vita non è mai una faccenda risolta, di cui noi certamente non siamo risolutori».

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