I riti collettivi, quelli tramandati per tempi così immemori da risultare irrintracciabili in uno specifico punto della storia, definiscono come poche altre cose l’anima di un popolo. Ne scandiscono le abitudini in maniera quasi sacra, ne plasmano ed esaltano le peculiarità, ne rispecchiano ascese e cadute. Talvolta, tuttavia, il ciclo infinito della loro ripetizione può rivelarsi insidioso, paradossale, inconsciamente insostenibile. La piacevolezza della consuetudine può tramutarsi rapidamente in una gabbia di cliché. Il conforto della certezza in un peso da trascinare con la forza dell’inerzia. L’entusiasmo dello svago in una pratica monotona e spersonalizzante. Perché, nascosto tra le pieghe luccicanti della libertà, incombe sempre, nell’intimo di ogni essere umano, l’incubo dell’obbligo, del dover essere e del dover fare. Persino durante l’estate, la stagione deputata per eccellenza alla fuga dai pensieri più opprimenti, difficilmente si riesce a fare a meno di personalissime imposizioni che, in fondo, a ben guardare, riflettono esattamente quelle stabilite dalla nostra società. E così nemmeno l’apparentemente l’innocente fine settimana al mare esula da questa frenetica ansia di adeguamento al canone, alla variopinta fiera dell’apparire. Nemmeno gli attimi di trascurabile e presunta felicità si sottraggono all’ipocrisia dei consumi. Tra i primi a soffermarsi su questi parossismi di massa fu Renato Guttuso, il quale, attraverso l’occhio clinico del pittore, si rese autore di alcuni celebri dipinti che ritraggono i siciliani – e gli italiani in genere – intenti a vivere con un velo di malinconia e malizia la bella stagione.

Uno dei più eloquenti è certamente La spiaggia, realizzato tra il 1955 e il 1956 e raffigurante uno dei simboli più riconoscibili delle vacanze italiche, ovvero il mare di Ostia. Una calca sovrumana e claustrofobica affolla ogni angolo della tela, mentre l’indifferenza e l’apatia si insinuano silenziose tra gli interstizi di sabbia. Piuttosto che apparire baciati e sfiorati dalla canicola, infatti, i corpi ritratti dall’artista siciliano, con una gamma cromatica che varia dal rossastro al verdognolo, appaiono piuttosto consumati, piegati, essiccati di ogni vitalità. Nessuna autenticità traspare dalle loro pose, dai loro sinuosi e caotici intrecci, dalle loro capriole abbozzate: ogni gesto, ogni attitudine rimanda a qualcosa di già visto, ad una dimensione stereotipata e fittizia. Sono muse decadute di antichi quadri, fisici scolpiti da sculture greche che hanno perso irrimediabilmente la loro lucentezza, inermi e sonnolenti figure senza volto, piedi deformi che fanno capolino senza alcuna ragione se non quella di mostrare la propria rozzezza. Non manca neppure, proprio al centro del dipinto, una caricatura del grande Pablo Picasso, uno dei pochi che, seppur minimamente, con il suo costume caleidoscopico e l’asciugamano tenuto a mo’ di mantello da torero, prova a sottrarsi alla cappa di anonimato che avvolge l’intero litorale. Un litorale in cui Guttuso sottolinea un fatto semplice ma inequivocabile: nessuno si sta divertendo. Lo scopo della vacanza, o della gita fuori porta, si è progressivamente inquinato: non più allegrezza e compagnia, ma presenza e calca. Ciò che importa ai soggetti ritratti dal pittore di Bagheria è comparire, partecipare superficialmente all’epopea del progresso e della tendenza, mettere in mostra la vanità e la contemporaneità del proprio sé. La spiaggia diventa, insomma, la vetrina del proprio desiderio di non essere da meno rispetto agli altri, il circuito di una gara in cui nessuno, precisamente, sa quale sia il premio finale, ma a cui tutti vogliono immancabilmente partecipare. L’immagine perfetta dell’omologazione moderna, in cui l’esistenza somiglia ad una grande giostra nella quale, a furia di girare in tondo, tutti perdono la propria identità.

È una vera smitizzazione quella inscenata da Guttuso. Il dietro le quinte di un’umanità ancorata alle sue croniche insicurezze, incapace di godere perché impegnata a compiacere prima gli altri e poi la propria autoconsiderazione. Prigioniera della foga di dimostrare opulenza, di un inganno praticato così a lungo da sembrare realtà. Abituata a vivere in maniera eterodiretta e non secondo coscienza. Inconsapevole complice di quell’industria chiamata relax.

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