Cosa separa Oreste e Amleto? Cosa distingue l’agire dell’eroe classico da quello dell’eroe moderno? Uno strappo nel cielo di carta. O, almeno, è ciò che sostiene l’enigmatico Anselmo Paleari ne Il fu Mattia Pascal, quando si premura di aiutare il protagonista ad individuare in quale esatto momento l’antico abbia lasciato spazio al moderno. E, in effetti, è come se al confine di quei due volti, al limitare del loro condiviso desiderio di vendetta, si dipanasse l’intera storia dell’uomo e del concetto stesso di eroismo. Il primo, infatti, incarna la compiutezza dello spirito greco, la ferrea e titanica volontà di portare a termine un sanguinoso proposito (in questo caso l’uccisione di Egisto, amante della madre Clitennestra e co-responsabile della morte di Agamennone, padre di Oreste ed Elettra); il secondo, invece, si fa portatore di una riflessione paralizzante, torturante, che ad ogni passo tenta di distoglierlo dal rancore covato verso lo zio Claudio, usurpatore del trono paterno. Cosa accadrebbe, tuttavia, se la finzione venisse squarciata? «Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gli impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto». Il castello di certezze crollerebbe. L’illusione della completezza cadrebbe miseramente, soverchiata dalla percezione di una realtà frammentata e incomprensibile. La determinazione diverrebbe dubbio perenne. E la lotta, categoria esistenziale dell’eroe, non sarebbe più contro qualcuno, ma contro sé stessi. È l’inesorabile degradazione delle grandi imprese. La trasformazione del nemico nei mulini a vento del Don Chisciotte o nel viaggio tutto interiore dell’Ulisse di Joyce. A questo filone decostruzionista – o postmoderno se si assume come riferimento la terminologia novecentesca – appartiene anche l’imponente capolavoro del siciliano Stefano D’Arrigo, vale a dire Horcynus Orca. Un’odissea contemporanea, suggestivamente immersa, sulla scorta del modello omerico, nell’infinita vastità del mare, eppure silenziosamente vittima di una cupezza latente. Appesa alla fragilità di quella voragine nel cielo di carta. E ad una conclusione che, man mano, si preannuncia funesta.

Perché la vicenda del marinaio ‘Ndrja Cambria, sin dall’inizio, appare come il tentativo disperato di rimettere insieme delle macerie. All’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, e della diaspora di gran parte delle forze armate italiane, a prendere il sopravvento è il desiderio di tornare nella sua Sicilia. Non certo da vincitore, come era accaduto ad Odisseo dopo le vicissitudini della guerra di Troia, ma come individuo sconfitto sul campo e nell’anima, imbarcato sull’anonimato di una nave dal tragitto lento, sospeso, fuori dal tempo. Antiche credenze, ricordi d’infanzia, paesaggi spettrali e mirabolanti spettacoli si mescolano alla sua vista. Istinto alla vita e presagi di morte si alternano, come il volteggiare dei delfini che poi, barbaramente, finiscono spolpati sulle spiagge dai pescatori. O come la mastodontica orca, che incute un ancestrale timore al suo apparire. Allegorie, correlativi oggettivi, questi, di una consapevolezza che, progressivamente, affiora nel lettore più attento. Non è il percorso dell’imbarcazione quello a cui va prestata attenzione: ma l’attraversamento umano di ‘Ndrja, che tenta di aggrapparsi a volti familiari per attingere ad un mondo che, forse non esiste più. Nulla sembra essere cambiato rispetto alla sua partenza: non le filastrocche degli uomini di mare, non l’ammiccare delle donne, non le irsute espressioni dei propri familiari. Eppure tutto sembra ormai estraneo, cristallizzato drammaticamente nell’impossibilità di progredire, meccanicamente stantio. Fragile, come l’illusione, una volta rientrato a casa, di poter ripartire da una piccola barca, dalla minuta felicità di una faticosa battuta di pesca. La stessa illusione che condurrà il protagonista verso il suo tragico, surreale, inatteso, beffardo destino. Quella di D’Arrigo non è più l’Odissea dei luoghi, del mito, del lieto fine. È l’Odissea dell’impossibile, dell’incompleto. È uno scontro impari contro i fantasmi del nostro passato.

Cosa c’è di eroico, allora, in tutto questo? Forse un bel niente. Forse tutto. Forse il solo provare a mettersi in cammino. A riavviare la vita là dove l’avevamo lasciata. Ad affrontare la paura, senza alcuna certezza di riuscita. «Inattesa, come per conto suo, la lagrima gli sgocciolava sul ciglio come lo stillare di un lontano pianto, segreto anche a lui: in quell’attimo, il brillio che mandavano le pupille, s’appannava e annacquava, quasi che la lagrima cadesse ancora dentro il vecchio, in una tazzina di porcellana dove si conservava per essere usata ancora, perché anche quella sorgente si essicca col tempo in un vecchio, le lagrime viavia la vita le dilapida, la vita si essicca per la morte».

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