Per illuminare le distorsioni del presente, a volte, è necessario ricorrere al passato, anche quello più lontano. A storie apparentemente estranee rispetto alle conquiste di civiltà che ci vantiamo fin troppo allegramente di aver raggiunto grazie al progresso. Storie innervate di intrighi e di superstizioni, di paradossi e di tragicomici sviluppi, di ferocia e di meschinità che vorremmo far finta non siano mai esistite. Storie come quella di una presunta strega, di una caccia senza quartiere che oggi reputiamo irripetibile, di un astio immotivato – ma in fondo nemmeno così tanto – verso una donna colpevole di non essere allineata alle consuetudini del proprio tempo. Perché Caterina Medici da Broni – da non confondere con l’omonima regina che resse il Regno di Francia a metà del XVI secolo – era nient’altro che questo: una umile serva soverchiata da un potere terribilmente più grande di lei. Una delle tante sventurate finita nel tritacarne del fanatismo inquisitore, sottratta all’oblio soltanto dal potere salvifico della letteratura. La sua uccisione al rogo, nel 1617, suscitò, infatti, la curiosità di due giganti della cultura nostrana, diversi sostanzialmente in ogni manifestazione del loro intelletto eppure accomunati dall’idea che le magagne dell’attualità, solitamente nella penombra, diventavano ben visibili attraverso una retrospettiva storico-letteraria: Manzoni e Sciascia. I due dedicarono a Caterina spazi quantitativamente differenti nelle loro opere, tuttavia ugualmente significativi: il primo citò l’episodio del processo per stregoneria nel XXXI capitolo de I Promessi Sposi, sullo sfondo del racconto della peste di Milano; il secondo, invece, scrisse a cavallo tra il 1985 e il 1986 un breve romanzo dal titolo La strega e il capitano. Un’opera sì di straordinario valore, ma anche e soprattutto un pungente atto d’accusa.

Nel ricostruire le surreali dinamiche che portarono al giudizio capitale della donna, lo scrittore di Racalmuto fin dall’inizio sottolineò come l’esito di quell’accanimento – e del fantomatico processo che ne seguì – fosse già pressoché determinato. Caterina, d’altro canto, aveva attirato su di sé il livore di personaggi tutt’altro che secondari: Vacallo, Capitano di giustizia del Ducato di Milano, sosteneva di essere stato vittima di un incantesimo amoroso, ordito proprio dalla Medici, volto a farlo cedere dinanzi alle avances di una delle sue serve che si era perdutamente innamorato di lui; Luigi Melzi, senatore appartenente ad una delle famiglie più in vista della città meneghina che aveva accolto Caterina nella sua dimora dopo gli spiacevoli fatti occorsi con Vacallo, fu persuaso da quest’ultimo che i suoi ricorrenti mal di stomaco fossero dovuti alla vicinanza di quella malefica donna. Che, per di più, venne accusata nuovamente di aver tramato alle spalle del padrone per ottenerne il favore sentimentale. La prova? Una testimonianza secondo la quale nei pressi del cuscino solitamente utilizzato dal senatore erano stati ritrovati tre cuori fatti con nodi di filo di refe, i quali involgevano capelli di donna. Un quadro indiziario perlomeno discutibile, se non ridicolo, che non mancò di suscitare in Sciascia una tragica ironia. Anche se certamente non tragica come la fine a cui Caterina andò incontro: reclusa e torturata fino allo sfinimento, fu illusa che una falsa confessione, con tanto di rivelazione delle sue presunte complici, le sarebbe valsa la salvezza, nonché il perdono degli enti ecclesiastici. La realtà, tuttavia, fu ben diversa: il 4 marzo, su una pira immane disposta per l’occasione in Piazza Vetra, il corpo di Caterina venne dato alle fiamme subito dopo essere stata strangolato. Della sua struggente storia, a lungo rimasta nel dimenticatoio, non rimase che qualche sparuto documento. Poche, asettiche, crudeli righe che ne sancivano la malvagità e la “giusta” sorte. E dei suoi carnefici una immeritata gloria da purificatori dell’eresia.

Fu Sciascia a smascherare, con il consueto rigore argomentativo, l’infamia di quel femminicidio. L’intolleranza e l’intransigenza di una Chiesa che tutto faceva fuorché comportarsi da tale. L’ipocrisia e la tirannia dei grandi notabili, che decidevano della vita e della morte del prossimo con spaventosa leggerezza. E, più di tutto, la criminosa natura del pregiudizio, che da secoli si incunea tra le crepe dell’ignoranza, della paura, dell’odio, dell’indifferenza. La storia di una strega milanese del XVII secolo non è istruttiva perché corriamo il rischio di innalzare roghi pubblici o di tornare al reato di eresia. Ma perché il difetto della condanna facile, dell’imposizione di un volere su un altro, del far valere regole ataviche e ignominiose, specie nei confronti delle donne, è congenito al nostro essere umani. Perché un tempo furono le streghe, oggi chissà. Perché, come disse Sciascia: «È potuto accadere e crediamo che accada».

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