Il caso “Di Stefano Velona” e la Giornata Mondiale del Malato: cosa resta di Ippocrate?
La notizia di cronaca del presunto ennesimo caso di malasanità ci spinge a cogliere l’occasione della ricorrenza cattolica per riflettere sull’arte medica e sul rapporto medico-paziente
[dropcap]«[/dropcap][dropcap]I[/dropcap]n qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini»: è quanto giura all’incirca nel V secolo a.C. il medico greco Ippocrate. Queste parole, con le opportune modifiche, continuano a essere battute sul petto da chi si appresta a svolgere la professione medica. Ma come per il “Padre nostro” e tutto ciò che impariamo a memoria, anche questo mantra rischia di essere spesso sacrificato a vuota litania. Oppure soffriamo di amnesia, che è la stessa cosa. È di questi giorni la notizia della chiusura della clinica catanese Di Stefano Velona: alcuni suoi medici avrebbero intascato rimborsi pubblici per accertamenti che, anziché effettuare, sarebbero stati simulati. Uno solo avrebbe certificato ben 1170 esami mai svolti mentre il Direttore Sanitario avrebbe in un caso pure falsificato la firma del paziente. Il pensiero, in ogni caso, non può non andare a Ippocrate nella Giornata Mondiale del Malato, ricorrenza della Chiesa cattolica romana fin dal 1993. Abbiamo scelto di viverla con un libro, L’identità esposta. La cura come questione filosofica (Vita e Pensiero, 2014) di Alessandra Papa, docente di filosofia morale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, per riflettere sull’arte medica e sul rapporto medico-paziente. Perché proprio questo testo? Perché l’autrice costringe al dialogo due sorelle divise, filosofia e medicina, muovendosi sapientemente fra riflessioni di diversi studiosi. E perché sembra di rileggerne le tesi nel messaggio scritto da papa Francesco a novembre per presentare il tema di questa XXVII giornata, Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date: critica all’aziendalismo e cura fondata sul dialogo e sulla reciproca coscienza della fragilità umana i punti in comune.
BUROCRATI E VIANDANTI SANITARI. Come spiegato da Alessandra Papa, sulla scia del contrattualismo della politica liberale, la medicina ha adottato «un modo di ragionare improntato sul giuridico» che si affida alle «categorie del permesso e del consenso». Proceduralismo e statistica strizzano l’occhio al medico che si trasforma «in una sorta di amministratore prefettizio della salute» mentre il malato, stretto tra oracoli, casistiche e moduli, è spogliato della sua unicità fino a non essere più paziente (in tutti i sensi) ma un utente che negozia un bene, la salute. «Il malato è così entrato in una sorta di filiera sanitaria» frammentata nella geografia dei reparti specialistici in cui vagabondeggia come «una sorta di viandante sanitario, di pellegrino della salute», siglando firme. «All’approccio olistico della medicina ippocratica se ne sostituisce dunque uno localistico». Il medico si prostituisce a scartoffie e matematiche quando va bene, al profitto economico nei casi peggiori. E il giuramento diventa d’ipocriti. Oggi la cura si scontra infatti con le logiche aziendalistiche che guardano alla persona malata come costo sociale e fonte di remunerazione. «Come sta?» È una domanda che sembra rivolta esclusivamente a ecografie, Tac ed esami al sangue: cercando in tutti i modi di far parlare i dati, abbiamo smesso di ascoltare gli uomini. Così i camici si sono disamorati del malato.
LA DIMENSIONE SACRA DELLA CURA. «Therapeia, nello specifico, platonicamente è anzitutto servire dio, adorare gli dei, ma in senso più ampio significa servire l’umano per l’umano»: ciò significa che «il medico nelle sue funzioni di terapeuta era tenuto all’obbligo preciso di coltivare e di accudire in modo servizievole la persona malata, per tutta la durata del tempo della malattia». Oltre a essere terapia, la cura è intesa nel mondo greco come Epimeleia heautou, cioè come conoscenza di sé e dei propri limiti. Recuperare questi due etimi significa ritornare alla dimensione umana e quindi etica della cura, al suo significato di atto emancipativo, «affinché chi è curato possa essere in grado di affrancarsi dal bisogno stesso, quando possibile», altrimenti accettarlo.
Secondo la mitologia, Asclepio, dio della medicina, apprende l’arte della guarigione da Chirone, emblema del guaritore ferito, il cui nome si lega sia a kairos, il momento supremo, per guarire come per morire, sia a keir, la mano. Posata, come in alcuni casi di malasanità – sul portafoglio, o sul cuore, come nel caso di tanti altri medici?