Lo avevamo lasciato lì, a inizio 2020, il popolo cileno. Aggrappato con veemenza e disperazione a barricate di fortuna, travolto dalla sua stessa rabbia in piazze infuocate, irremovibile nella sua tutt’altro che pacifica richiesta di una nuova Costituzione. Già allora, nel fremito rivoluzionario di coloro che avevano attraversato la dittatura di Pinochet, nel disordinato rumore di quei ragazzi che, battendosi per affrancarsi dalla dolorosa eredità dei padri, stavano paradossalmente aggravando gli stravolgimenti nel Paese, don Marco Aleo, prete missionario catanese da più di dieci anni trapiantato nei difficili sobborghi di Puente Alto, periferia Sud di Santiago, aveva intravisto ciò che oggi sta effettivamente accadendo. Il rischio di una cocente delusione. E un ulteriore sfaldamento di una società già immalinconita: «Quando penso all’umanità del Cile – confessa con uno sguardo che tradisce affetto e preoccupazione – penso ad un’umanità ferita. Penso a come questa nazione sia la perfetta incarnazione di una ingenuità che accompagna l’umanità da sempre: credere che la ricerca della felicità passi esclusivamente da un cambiamento politico. Lo si è creduto con forza all’indomani della parabola dittatoriale di Pinochet, quando la società civile, con la prospettiva del passaggio alla democrazia, inneggiava urlando “L’allegria sta per arrivare”. Solo che poi non è arrivata affatto. E anche adesso il risultato di quell’esplosione sociale sembra avviato a risolversi negativamente». Che ne è stato, dunque, della appassionata ricerca di giustizia? In quale cassetto è stato stipato il sogno della Costituzione?

«Il 4 settembre il Cile voterà per l’approvazione della Costituzione. Ma i sondaggi dicono già che sarà bocciata»

RIVOLUZIONE AL CAPOLINEA? A sentire don Marco, in uno di quelli da cui sarà difficile rivedere presto la luce: «Le dimostrazioni di diverse fasce della società cilena hanno effettivamente portato ad un voto per eleggere l’Assemblea costituente. Ma quando il voto è guidato dall’animo acceso della protesta, da sentimenti profondi di disaffezione e fastidio verso la politica e l’autorità in generale, dalla miopia di non essersi resi conto che, con tutti i limiti del caso, il Cile post-Pinochet aveva comunque conosciuto un discreto sviluppo e ottenuto importanti conquiste sociali, le possibilità che si traduca in risposte per i cittadini sono remote». E così, nonostante l’Assemblea sia effettivamente giunta alla redazione di un testo, il processo politico e legislativo della tanto agognata Costituzione sembra già segnato: «Il 4 settembre il Paese voterà per la sua approvazione e già tutti i sondaggi predicono che sarà bocciata. I costituenti eletti dalla rabbia del voto popolare hanno rivelato tutta la loro fragilità, così come una cronica incapacità di intraprendere la strada del dialogo. Anzi, la maggior parte di loro, ignorando la necessità di ricercare un consenso ampio, ha imposto via via una linea unica da seguire». Una linea certo non all’altezza di quell’attesa quasi «messianica» che ha contraddistinto gli ultimi due anni. E che rischia seriamente di dissotterrare le asce di guerra che sembravano aver lasciato il posto alla ragionevolezza delle dinamiche democratiche: «Tutto questo sta avendo luogo – precisa don Marco – nonostante a marzo di quest’anno si sia insediato un nuovo governo di centro-sinistra, che sembrava voler accogliere le richieste dei manifestanti. Eppure, ogni venerdì i mezzi di informazione danno conto di nuove proteste, di saccheggi, di vere e proprie distruzioni, spesso anche ai danni delle scuole. Lentamente sembra si stia scivolando nel clima degli anni passati, quando persino le forze dell’ordine erano state esautorate dalla furia delle masse».

«Alcuni sociologi cileni parlano di “anomìa”. Chi ha un desiderio non percepisce filtri nel cercare di raggiungerlo. Il progetto diventa atto. E da qui si arriva alla violenza»

DESIDERIO DISTORTO. La disillusione, perciò, sembra essere la piaga che affligge il popolo cileno. Un male che si diffonde subdolamente, di generazione in generazione, suscitando un fremito senza posa e senza traguardi. E per questo decisamente pericoloso: «Alcuni sociologi cileni – aggiunge don Marco – definiscono questo atteggiamento anomìa, letteralmente “mancanza di leggi e di ordine”. Chi ha un desiderio, e vive contestualmente con esasperazione le gerarchie, non percepisce alcun filtro, alcun ostacolo rispetto alla sua intenzione di realizzarlo. Il progetto diventa immediatamente atto, perché giustificato dall’assunto che è buono di per sé. I casi di violenza e illegalità ne sono degli esempi lampanti, ma anche situazioni più silenziose, come il rapporto professore-alunno, ne risentono grandemente. Le dimensioni del giudizio e del confronto vengono meno. Se si pensa alle agitazioni del Cile come ad un piccolo ’68, d’altro canto, le similitudini non mancano di certo». E il rischio di sprofondare nuovamente e paradossalmente nella spirale dell’autoritarismo e delle fratture sociali, mettendo tra parentesi trent’anni di libertà acquisita, è dietro l’angolo: «Quando si parla di populismo, si prende sempre in esame la capacità seduttiva di un leader carismatico. Ma perché non guardare a cosa effettivamente chiedono le masse che finiscono per seguirlo? È questa la vera sfida: non soltanto per le istituzioni, che necessariamente devono muovere dei passi concreti per una maggiore equità sociale (per esempio garantire ad ogni cileno il diritto di non dover aspettare due anni per un’operazione in ospedale), ma anche per chi, come me, ha il dovere di raccogliere il grido di chi chiede aiuto».

«L’invisibilità è difficile da sostenere. Questi ragazzi hanno bisogno di essere riconosciuti e valorizzati. Per tornare a sperare nel domani»

GENERAZIONI MUTE. Perché in Cile a soffrire non sono soltanto coloro che scandiscono slogan imbracciando un megafono. Ma anche coloro che, nel polveroso silenzio della periferia, non hanno neanche la forza di urlare. «I due anni di lockdown dovuti alla pandemia – rivela il prete catanese – hanno acuito delle criticità sociali già presenti, sfavorendo soprattutto le persone più vulnerabili e i ragazzi, che per un biennio si sono ritrovati a convivere con la tragedia educativa dovuta alla chiusura delle scuole e delle chiese. Per mesi – aggiunge con un sorriso amaro – la mia missione si è svolta al mercato, perché era l’unico luogo in cui tutti andavano». Dal disagio all’indifferenza il passo è breve. Fare breccia in queste vite abbandonate dalla storia è tutt’altro che semplice: «Qualcuno ha definito i giovani contemporanei come delle generazioni mute. Pur essendo tali, però, il loro bisogno di considerazione si esprime in mille modi. Come in quei ragazzi che rifiutano il contatto con gli altri, che hanno vergogna di sé, che anche in presenza di un caldo torrido indossano cappotti pesanti per coprirsi, che si nascondono dietro la mascherina anche quando non c’è bisogno. Osservando tanti di loro, negli anni, ho compreso che l’invisibilità è una condizione difficilmente sostenibile. Essere riconosciuti e valorizzati non da una falsa autorità che ti opprime e ti manipola, ma da una autentica che insegni loro come realizzarsi, è ciò che serve più di ogni altra cosa in questo momento». Non è forse vero che, se si scorge in mezzo ai cocci del caos una scheggia di speranza, vale sempre la pena raccoglierla? «Ultimamente mi capita spesso di dire che i cristiani in Cile sono i veri trasgressivi. Perché in un paese che ha paura di guardare lontano, in cui la natalità diminuisce perché è considerata un’irresponsabilità dare alla luce qualcuno in un mondo ingiusto e malvagio, abbiamo ancora il coraggio di pronunciare la parola futuro. Di impegnarci affinché questi ragazzi comprendano che avere fiducia nel domani è possibile».


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