A volte, per giungere alla svolta necessaria e definitiva, la storia ha bisogno di inciampare. Di deragliare dai binari sui quali sembra inevitabilmente incanalata. Di incontrare l’ostinata resistenza di un ostacolo che ne rallenti il corso, che faccia da monito ai passeggeri distratti di quei vagoni. Questo prezioso inciampo ha il volto vivace del dissenso, i crismi più puri dello scandalo. Può incarnarsi nella tagliente estremità di una penna, negli abbaglianti fotogrammi di una pellicola. Può annidarsi dietro l’imponente sipario di un palcoscenico o nell’impasto dei colori riportati su una tela. Quali che siano i suoi lineamenti, porta con sé l’irriducibile carica morale di coloro che non si piegano al fatalismo o alle contingenze avverse. L’eco di un grido, lanciato da chi, sganciandosi dall’imposizione di un codice etico preconfezionato, afferma l’indipendenza del proprio stare al mondo. L’incorruttibilità della propria sensibilità, la volontà di tenere il proprio talento lontano da ogni genere di compromesso. Cos’è, in fondo, un artista se non l’incarnazione stessa dello scandalo? Chi, se non colui a cui spetta il compito di professare il credo della libertà anche quando se ne fa esplicito divieto? Chi, se non colui destinato a risultare inviso ai potenti a cui ha pestato i piedi? L’arte autentica, infatti, non si cura del consenso. Anzi, se possibile lo rifugge. Si compiace, piuttosto, dell’essere disprezzata, del marcare la propria distintività anche a costo di sprofondare nell’emarginazione. Del rimanere fedele a sé stessa oltre le facili convenienze. Fu esattamente questa la scelta portata avanti da diversi pittori nel corso dello sciagurato ventennio fascista. Tra loro, una delle più illustri fu la palermitana Lia Pasqualino Noto, allieva del grande Onofrio Tomaselli ed eclettica interprete di alcune delle correnti artistiche più dirompenti del secolo scorso. Un talento multiforme, che per tutta la vita il suo grande sodale Renato Guttuso non smise mai di elogiare e difendere, e che, nel punto più alto raggiunto dal regime in termini di pervasività, fece parlare di sé per la sua audacia.

Lia Pasqualino Noto

Insieme con Guttuso, appunto, e con gli scultori Giovanni Barbera e Nino Franchina, Pasqualino Noto, nel 1932, fu l’animatrice del cosiddetto Gruppo dei Quattro. Una risposta netta e ferma, quella del sodalizio tutto siciliano, rivolta agli esponenti del novecentismo i quali, predicando il ritorno all’armonia e alla purezza formale del mondo classico, avevano, più o meno consapevolmente, avallato le becere nostalgie romaneggianti dei gerarchi fascisti. I quali, naturalmente, intravidero immediatamente nella rigidezza di quelle rappresentazioni un eccezionale mezzo di propaganda e di disciplinamento della popolazione. Sfruttando quell’asettico studio delle pose, quella ricerca esasperata di una semplicità che, in architettura, si tramutava quasi consequenzialmente in una pomposa austerità, gli ideologi del fascismo ebbero vita facile nel propugnarla come monito ad una stringente  – e in verità apparente – morigeratezza dei costumi, ad un pedissequo allineamento alla volontà e alle bizze di un capo carismatico. Una pressione che, tuttavia, non ebbe effetto sui nostri conterranei. Ma che, anzi, li spinse ad esplorare frontiere del tutto nuove, linguaggi arditi impossibili da addomesticare. Iconografie che vennero immediatamente osteggiate, se è vero che, ad appena un anno dalla sua formazione, il Gruppo dei Quattro venne escluso dalla Biennale di Venezia. La più estrema, in questo senso, fu proprio la Pasqualino Noto. Proprio lei, che dovette penare doppiamente per ritagliarsi un ruolo di prestigio in una società votata all’esaltazione del machismo – «nel 1937 a una donna era quasi impossibile venir presa sul serio: una prevenzione razziale relegava la femmina al ruolo dei “dilettanti”», affermò in seguito ripercorrendo quegli anni – osò, attraverso le sue tele, destrutturare uno dei miti più cari al fascismo: quello dell’angelo del focolare. Mentre il regime incoraggiava la spersonalizzazione delle donne, fiaccando al tempo stesso il loro spirito di iniziativa rispetto ad attività che non fossero la cura dei figli e della casa, la pittrice palermitana spiattellava in faccia a quelle subdole ed ipocrite prescrizioni corpi femminili carnosi, discinti, fascinosamente sgraziati nella loro malizia. Al senso di nullità che veniva preteso, opponeva sguardi fieri, sagaci, infuocati. Là dove le alte sfere si attendevano forme conchiuse e solide, ella li sorprendeva con contorni fluidi, a tratti esotici, quasi primitivi. Le sue pennellate, selvatiche come un felino in cattività, divennero l’inno non soltanto l’inno di battaglia di tanti oppositori del regime, ma anche quello delle donne e della loro faticosa risalita.

Uno spirito eversivo, dunque, che non smise di agitarsi dinanzi alle storture del mondo nemmeno dopo la fine della parabola fascista. Né di andare controcorrente, sia da gallerista, a Palermo, acquistando opere che spesso andavano sapientemente contro le tendenze e i gusti dell’opinione pubblica, sia come autrice in prima persona, con accenti stilistici vicini alla pop art. Nulla sfuggiva alla clinicità del suo occhio: le contraddizioni del boom economico, la progressiva e mostruosa espansione del progresso, il lato oscuro delle conquiste spaziali e della Guerra Fredda, fino all’odierna, e forse insanabile, condizione di estraneità dell’uomo a sé stesso. Perché l’arte, si sa, è sempre un passo avanti. Ma forse Lia Pasqualino Noto lo era persino di più.

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