Il “Diario siciliano” di Ercole Patti: ritrovare la felicità tra le strade di una Catania che fu
Tra i più famosi aforismi attribuiti al genio ribelle di Oscar Wilde, ce n’è uno particolarmente intriso di una sfavillante malinconia: «Non vi è altro modo di liberarsi da una tentazione che di soccombere ad essa. Se resistete, l’anima vostra si ammalerà di desiderio per quelle cose che le sono state rifiutate». Verrebbe quasi da pensare, tuttavia, che il dandy irlandese, nell’esprimere il suo pensiero fuori dagli schemi, non avesse fatto i conti con una delle tentazioni che più affligge il corso dell’esistenza umana: il bisogno di tornare indietro nel tempo. E più tale bisogno si rivela frustrato, irrealizzabile, incommensurabilmente lontano, tanto più il nostro cuore finisce per rimanervi impigliato. Per ciondolare triste e maldestro tra rimorsi e ricordi felici, tra versioni alternative di un passato granitico e immutabile e la dolcezza spensierata di un frammento d’infanzia. Come può l’uomo, insomma, lasciarsi andare a qualcosa che i suoi stessi limiti gli rendono intrinsecamente proibito? Attraverso il filtro magico della scrittura. È lei l’unica che può essere apparentata ad una macchina del tempo per l’anima. È in lei che le dimensioni del passato, del presente e del futuro perdono ogni confine, ogni delimitazione, ogni consuetudine. È lei che al suo cospetto è in grado di radunare la raffinatezza dell’illusione, la profondità della memoria, il sottile e talvolta impercettibile dolore della nostalgia. Cosa sono, d’altro canto, se non una felice combinazione di tutti questi elementi, i diari letterari? Cosa sono, se non l’estremo tentativo di riacciuffare una felicità perduta chissà quando e chissà dove? A questa medesima categoria appartiene anche l’opera straordinaria del catanese Ercole Patti, a lungo fisicamente lontano dalla sua città natale, eppure mai sradicato dalle strade che, ragazzino prima e adulto poi, lo avevano visto errare in preda ad innocenti furori. Nella sua storia, nel suo leopardiano dolce naufragare tra i relitti di ieri, nell’intimità di una vicenda che sembrerebbe in apparenza inaccessibile a chiunque altro, si cela, in realtà, l’universalità di ogni isolano – e di ogni uomo – alle prese con l’accatastarsi dei ricordi e con i suoi dolceamari effetti.
Quando, infatti, Diario siciliano vide la luce nel 1971, fu subito chiaro che quella prosa così armonicamente libera da ogni costrizione retorica avrebbe lasciato il segno. Non solo, e non tanto, perché tale fatica letteraria valse a Patti il Premio Campiello, ma perché il fluire di quelle parole era riuscito a ridare vita a luoghi, sentimenti, persone, gesti ormai perduti o trasfigurati. Scanditi a ritroso, dagli anni più recenti a quelli quasi mitici della fanciullezza, i capitoli del Diario appaiono come porzioni di un immenso affresco nel quale ogni amarezza, ogni timore, ogni inquietudine del presente si scioglie nella candida parvenza di ciò che fu. È proprio un’affermazione di vita e di presenza, quella che Patti oppone ad una consapevolezza che non poteva non tormentarlo: la caducità dell’esistenza. «Il mondo – scrive rievocando una delle tante passeggiate compiute tra le campagne alle pendici dell’Etna – si presenta felice ed eterno; gli uccelli cantano fra i rami degli alberi e sulle pietre dei muretti che recingono i vigneti e nessuno pensa che un giorno dovrà morire». Così come, certamente, non lo pensava lo stesso Patti nei momenti più lirici e toccanti ripercorsi da questo viaggio interiore: quando non vedeva l’ora di gustare la granita fatta con la neve, quando le camminate con gli amici in Via Etnea sembravano infinite maratone di ingenuità, quando il profumo della pasta alla Norma si mescolava alla salsedine dell’amata Pozzillo. E poi, ancora, c’è spazio per il ricordo dell’atmosfera uggiosa delle giornate di pioggia che sorprendono le ringhiere dei balconi e i panni stesi, per l’inebriante momento della vendemmia associato ai grandi pentoloni contenenti il mosto, per i piccoli oggetti spariti dall’uso comune, per la commossa visita alla casa di Vincenzo Bellini. Per le considerazioni – un po’ alla Celentano ne Il ragazzo della via Gluck – sugli effetti deturpanti della cementificazione nei Paesi Etnei: «Le vigne e i boschetti si riempiono di villinetti di mattoni interrotti da blocchi di muro simili a pezzi di torrone mandorlato, persiane rosa e gialle, colorini squillanti che fanno a pugni col paesaggio». Pallide ombre, a suo modo di vedere, di ciò che erano anni prima, «immersi in un grande languore, in un dolcissimo letargo, tanto che in certe ore si sarebbero detti paesi disabitati. Invece erano pieni di gente in villeggiatura».
Di lì a qualche anno, nel 1976, Patti ci avrebbe lasciati. E certo l’istinto a pensare alla sua opera come il testamento di un uomo che sente l’approssimarsi della fine potrebbe farsi largo. Ma sarebbe semplicemente riduttivo, se non miope, ignorare che quello dello scrittore catanese è, piuttosto, un canto ancestrale e trasversale, l’infinita e sempre incompleta rincorsa a ciò che si staglia oltre lo sguardo della contingenza. Infinita, come il dubbio che ci assale una volta terminata la lettura: è più facile rimanere intrappolati nel reticolo dei ricordi o trovare, nei loro incroci, la chiave per uscirne appagati?