Quand’è che un testo, in maniera equivocabile, può fregiarsi di essere definito letterario? E quali specifiche caratteristiche, al contrario, concorrono ad escluderlo da questa categoria così prestigiosa? Se chiedessimo il parere di un numero sostanzioso di lettori, con un profilo di preferenze e abitudini piuttosto variegato, è probabile che le risposte finirebbero per convergere su un’impressione di tipo estetico, formale. Da sempre, infatti, la letterarietà è simbolo di complessità, di ricerca della figurazione, di slittamento del significato. Talvolta persino di una riservatezza criptica. Ma se così fosse, se bastasse sforzarsi di essere vagamente labirintici, di attribuire al proprio dettato una patina di inconsueta elevazione, che ne sarebbe di tutta quella pletora di scritti che hanno raggiunto l’eccellenza senza conformarsi a questa presunta regola generale? Che ne sarebbe di tutto ciò che si staglia oltre il ristretto orizzonte dei romanzi e della lirica? Che ne sarebbe di diari, autobiografie, epistolari, opere dialettali? No, la letteratura non è una questione di forma. È, piuttosto, una questione di sentimento. È il luogo del mistero dove anche la voce del singolo più sperduto e improbabile può tramutarsi nella voce di tutti. Dove le regole, giocando con sé stesse, si affermano e si sconfessano continuamente. Dove anche un umile, sventurato, sconosciuto bracciante di Chiaramonte Gulfi può assurgere a testimone della Grande Storia. Poche vicende, infatti, sono tanto emblematiche quanto quella di Vincenzo Rabito, contadino che visse sulla propria pelle le conseguenze dei grandi stravolgimenti del Secolo Breve e che, pur non padroneggiando gli standard della lingua scritta, decise di affidare alla carta le sue emozioni. Ne venne fuori un’opera assolutamente sui generis: una testimonianza ardente e commovente di un uomo che per tutta la vita non fece altro che combattere. Metaforicamente e non.

Terra matta – titolo con cui Einaudi nel 2007 diede alle stampe questo peculiare memoriale, ripreso anche dalla regista palermitana Costanza Quatriglio per il suo documentario del 2012 – è infatti un grande, articolato affresco di un’intera generazione, quella del 1899, divisa tragicamente tra la miseria e il sogno di gloria, tra l’illusione di una guerra che finisce e il brutale ripresentarsi della successiva. Costretta ad arruolarsi, ad appena 18 anni, nelle trincee della Grande Guerra, sedotta dalle promesse di grandezza del fascismo, disposta a trasferirsi persino in Africa, nell’ambito del progetto colonialista del regime, per cercare fortuna. E poi rispedita sul campo di battaglia della Seconda guerra mondiale, lasciata al proprio destino di fame e sofferenza e parzialmente risollevata dalla crescita economica degli anni ’60. Guardando a quel turbine di eventi in retrospettiva, Rabito ci restituisce i pensieri, i dolori, le afflizioni quotidiane di un mondo che spesso la storiografia ha – involontariamente o meno – marginalizzato. Ma anche le contraddizioni di una quotidianità minata dalla cupezza delle atmosfere belliche, il tentativo disperato e umanissimo di aggrapparsi agli affetti più prossimi. Lo sforzo di capire cosa spinge gli uomini ad autodistruggersi. Esemplificativo, in questo senso, un passaggio tratto da Il romanzo della vita passata – pubblicato sempre da Einaudi nel 2022 sulla scorta di nuove pagine memoriali emerse – nel quale il nostro conterraneo, durante la sua presenza in Somalia, riesce a restituire con una semplicità e con una chiarezza mirabili il cambiamento di percezione nei confronti dell’operato di Mussolini. Tra un giustificato strafalcione grammaticale e l’altro, un racconto che, come pochi, sa di strade polverose, di urla provenienti dalle piazze. Di verità.

«Mi sono manciato uno bello chilo di banane e mi sono messo a cirare, che cera una crante composizione a Mogadiscio, speciarmente che tutte li ciornala portavino che stava per scopiare la querra. Mi sono messo a camminare con uno operaio barise che aveva lavorato nella crante ditta Mareterania, ed era composto preciso come me, che aspetava il ciorno 3 che partiva la nave, e quinte ci abiammo preso una buona amicizia, e camminammo sempre inziemme. Alla sera di nantiammo al cinema e al teatro, che cera uno teatro che facevino comedie e operete, che la prima sera che ci antiammo, facevino una comedia che cominciavino a babiare al capo deie ministre Mossoline, che dicevano che Mussoline era il conquistatore dellempero, che facevino una farsa, che tutte italiane erano co li tasche delli pandalone vuote, e poie cantavino questa canzone che «Mosoline si chiama duce… e vedete come ci reduce!»… colli tasche vuote. E poi cantavino faceta nera che diceva al contrario: «Ora non si canta più faceta nera, ma si canta faceta bella italiana…» Vedete che diferenza che cera in un mese! Prima allafrica dicevino magare li prete che questo Mossolino a noie italiane ci laveva mantato il Signore, e invece ora a Mosolino lo volevino abruciare».

Sappiamo che Rabito trascorse il resto della sua vita, conclusasi nel 1981 nella stessa Chiaramonte Gulfi da cui tutto aveva avuto inizio, a scrivere. E quasi viene spontaneo immaginarselo lì, davanti alla sua inseparabile macchina da scrivere, mentre tenta di strappare all’oblio del tempo i ricordi di tutti i compagni, di tutti gli uomini, di tutti i disgraziati che non hanno potuto raccontarsi. Di tutti quelli senza nome, senza volto, scomparsi nel fango delle linee nemiche, morti di fame per delle guerre che non avevano chiesto, sperduti nel mare agitato della storia. No, la letteratura non è nella forma. È nel coraggio di raccontare. Nell’inventarsi una lingua, se necessario, per dire quello che non può essere detto. È cedere all’impulso irrefrenabile di scrivere. Per sé e per gli altri. Esattamente come ha fatto Vincenzo Rabito.

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