Sensibilità spiccata e malinconica, soggezione nei confronti del tempo e della storia, rapporto costante e inevitabile con una natura selvaggia e con la morte: appartenere alla Sicilia sembra quasi una pena da scontare. Ma c’è bisogno dell’ombra perché la luce brilli in tutta la sua luminosità. È prendendoci carico di questi elementi che possiamo scoprire la vera essenza della sicilianità

Le nostre radici non possono essere estirpate. A volte, nascoste, si annidano sullo sfondo sfumato dei nostri ricordi più dispersi; altre volte, quasi inconsciamente, ci riaffiorano davanti agli occhi, ingombranti nella loro favolosa concretezza, a rimarcarci cosa vuol dire avere una provenienza ed esserne all’altezza. Non esiste, infatti, per quanto le sue origini siano distanti nel tempo e nello spazio, un essere umano che possa dirsi completo senza la concomitanza di presente e passato nella sua formazione. Tale discorso potrebbe già avere una valenza pressoché universale e i siciliani non fanno certo eccezione. Ma, allo stesso tempo, parlare della nostra natura umana ha sempre quel pizzico di difficoltà in più che nasce dall’unicità del caso siciliano, in cui i suoi abitanti si trovano spesso a fare gli equilibristi tra amore e odio, tra integrazione profonda ed autoesclusione. Lo sa bene un isolano raffinato e sensibile a questi temi: è Gesualdo Bufalino, che a questa cronica ed ineliminabile ambivalenza della sicilianità ha dedicato un volume eloquente già nel titolo di La luce e il lutto. Sì, lutto: i siciliani hanno un’istintiva percezione della vicinanza della morte, della fine, della caduta. Ogni siciliano, preso nella sua individualità, è un inno alla vita continuamente minacciato dall’incombere di un’oscurità esistenziale, di un’insufficienza delle sue forze. Ma, allora, essere siciliani può rappresentare una condanna?

 Senza dubbio, può esserlo. Non a caso lo scrittore di Comiso, una volta, parlò di un «luttuoso lusso d’essere siciliani». Non si può eludere questo arduo enigma, questo insoluto ossimoro se si vuole sperare di trovare un filo rosso che colleghi le nostre vicende storiche e sociali. La condanna di cui si parlava prima esiste da sempre: esposto alle gigantesche forze della natura, in balia di una storia da dominati sottoposti al dominante di turno, il siciliano non può fare a meno di lasciarsi andare continuamente al rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Vede la sua terra come una grande tela incompiuta, sulla quale i colori hanno spesso trovato una perfetta combinazione senza giungere ad una forma definitiva. Vede la meraviglia delle opere d’arte che sono state prodotte, i segni di una grandezza che fu, che disperatamente prova a fare capolino dentro l’asfittica piccolezza di un desolato stato di conservazione. E poi vede se stesso, dotato di una fantasiosa apertura alare che fatica a dispiegarsi. È così che il pericolo della fine mostra il suo volto minaccioso contro le illusioni dei grandi progetti. Non è forse una severa condanna la consapevolezza di meritare più di quello che si è ottenuto? Ma non tutto è perduto. Perché, per tornare a Bufalino, accanto al lutto della perdita, in Sicilia, c’è sempre la luce di una rincorsa senza fine. Lo stesso scrittore diceva che «l’isola tutta è una mischia di lutto e luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte […] Appare come uno scandalo, un’invidia degli dei». Ecco il miracolo: in Sicilia, più veniamo offuscati e più sappiamo rischiarare.

Non possiamo toglierci di dosso il peso della condanna, lo abbiamo detto. Ma abbiamo, e dovremo preoccuparci di conservarla ancora a lungo, la forza di cambiare il segno a questa pena ancestrale: nel constatare cosa abbiamo sbagliato, nell’impegnarci a risarcire le mancanze del passato e a mettere le basi per il futuro, la condanna esistenziale diventa lo stimolo a sognare ancora, il trampolino di lancio di una Sicilia che tragga il meglio di ieri e di oggi. L’immagine vitale di un’ombra dolceamara.

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